Ragnatela_di_Puttin

la Ragnatela che Putin ha Costruito (e lo Ingabbia)
di FRANCO VENTURINI
Vladimir Putin si è cacciato in un vicolo cieco dal quale ben difficilmente riuscirà a districarsi. Il dilemma del capo del Cremlino è semplice quanto privo di soluzioni agevoli: al punto in cui è arrivata la guerra in Ucraina e dopo le prime sanzioni davvero pesanti decise da Europa e Stati Uniti, è meglio difendere una economia già in crisi e attirarsi l’ostilità degli ipernazionalisti, oppure conviene cavalcare il consenso patriottico e rischiare una rivolta sociale per il brusco abbassamento dei livelli di vita? In realtà Putin, se vuole sperare di essere rieletto nel 2018, non può fare nessuna delle due cose. La prima lo esporrebbe ad accuse di tradimento da parte della sua stessa base politica Una base fatta di siloviki (ex agenti del Kgb come lui), di burocrati, di militari e di masse soprattutto extraurbane orientate dalla Chiesa ortodossa. La seconda darebbe soddisfazione a questi settori, ma innescherebbe una spirale economica che potrebbe rivelarsi catastrofica, offrendo un nuovo motivo di protesta a quei «liberali» oggi praticamente scomparsi e pure forse capaci di riorganizzarsi davanti alla fine dell’agognato benessere. È questa scomoda alternativa che Putin ha in mente quando parla con Obama come ha fatto venerdì o quando cerca una formula salva-faccia che possa far breccia a Berlino. E l’Occidente, se vuole evitare conseguenze peggiori di quelle già provocate dal conflitto ucraino, farebbe bene ad approfondire una realtà interna russa che troppo poco sembra interessarlo. Ma come ha fatto, l’uomo che meno di un anno fa era sugli scudi per aver aiutato Obama sulla Siria, a diventare prigioniero di se stesso? È sempre la solita antica storia, quella dell’orso russo. Sappiamo cosa rappresenta da secoli l’Ucraina per la Russia, sappiamo del braccio di ferro tra la Ue e il Cremlino per l’accordo di associazione, sappiamo della rivolta di piazza Maidan considerata «un complotto» da Mosca e della fuga del presidente Yanukovich. Putin risponde annettendosi la Crimea, «donata» da Krusciov all’Ucraina ai tempi dell’Urss, abitata da russi etnici e resa indispensabile dalla base navale (in acque calde) di Sebastopoli. Si è trattato di una indiscutibile violazione del diritto internazionale, di uno strappo che l’Occidente non sarà mai in grado di riconoscere come non riconosce, per esempio, l’indipendenza dell’Ossezia del Sud. Ma se Putin si fosse fermato a quel punto Washington e gli europei avrebbero forse chiuso un occhio. E difatti l’annessione della Crimea sembra uscita dall’ordine del giorno internazionale. Invece Vladimir Putin, come spesso fanno i russi, quando ha l’impressione di vincere dimentica di frenare. Dai primi di aprile il presidente incoraggia e rifornisce una ribellione dell’Ucraina orientale contro i «fascisti» di Kiev, e all’interno della Russia, fatto questo ancor più determinante per l’impasse odierna, scoperchia il vaso di Pandora del nazionalismo, infiamma il popolo attraverso i mezzi di comunicazione che controlla quasi totalmente, avvia una sorta di crociata non solo contro Kiev ma contro gli Usa (l’Europa all’inizio viene risparmiata) che vogliono piegare e umiliare la Patria. Putin sperava forse di dividere l’alleanza occidentale contando sugli interessi energetici di alcuni europei, Germania in testa. Progettava forse di arrivare in posizione di forza a un negoziato che trasformasse l’Ucraina in federazione, sicuro di poter controllare la parte orientale dove la Russia ha ingenti interessi economici e militari (lì vengono fabbricati i motori dei cacciabombardieri di Mosca). E invece lo zar sbaglia i calcoli. Le sanzioni economiche cominciano a piovere, i capitali a fuggire all’estero, gli investimenti a battere in ritirata. Una schiarita per la verità sembrò esserci dopo il 6 giugno, quando Putin incontrò in Normandia l’appena eletto presidente dell’Ucraina Petro Poroshenko e avviò un dialogo con lui alla luce della ribadita volontà di Kiev di decentralizzare il Paese. Tornato nella sua capitale, però, quasi subito Poroshenko ordinò l’offensiva militare in corso ancora oggi contro i ribelli orientali, impedendo l’allargamento della pre-trattativa non si sa se per influenze ricevute o per scelta propria. Putin, da parte sua, non aveva chiuso il confine e continuava a rifornire i filorussi. Il resto è cronaca recentissima. L’abbattimento probabilmente per errore del volo civile MH17 il 17 luglio, le sanzioni di «terzo livello», i filorussi che arretrano davanti all’avanzata delle forze regolari ucraine. E Putin con le mani legate e i conti in rosso vivo. In Russia la crescita economica è piatta, in attesa di una prevista recessione. Nei prossimi dodici mesi il debito estero richiederà finanziamenti per 127 miliardi di euro, e le grandi banche (compresa Sberbank, che non è nelle sanzioni Usa ma è in quelle europee) non potranno più accedere ai mercati dei capitali dove normalmente prima operavano. Subentreranno il governo e la banca centrale, ma anche se la Russia detiene il quinto livello di risparmio al mondo e forti riserve, il problema del finanziamento si aggraverà nel tempo. Nell’attesa sono fuggiti dalla Russia almeno 54 miliardi di euro in sei mesi, che diventeranno 97 miliardi a fine anno. Gli investitori occidentali riducono l’esposizione o si ritirano in previsione di una forte contrazione dei consumi. I progetti energetici nell’Artico saranno bloccati perché non arriveranno più macchinari e tecnologia. Insomma, malgrado le immense risorse della Russia l’economia corre verso un muro, e nel mondo globalizzato non è più tempo di autarchie. Ne deriverà che Putin dovrà mostrarsi più malleabile, che mollerà i ribelli ucraini? Non è per niente detto. Semmai le prime indicazioni sono di un ulteriore irrigidimento, del rifiuto di un suicidio politico quale potrebbe essere una «resa» alle sanzioni davanti al popolo e ai nazionalisti che lui stesso aveva mobilitato. Una invasione militare dell’Ucraina resta improbabile, ma questo è il momento di maggior rischio se l’Occidente non gli tenderà alcuna mano salva-faccia. E l’Occidente, soprattutto se Obama resterà sulla «linea Nuland» sin qui seguita, non sembra dell’umore adatto. Torna a essere vero che «l’unica cosa più pericolosa di una Russia forte è una Russia debole». Putin ha esagerato e ha fallito. Ora è poco verosimile che scelga di pentirsi, condizionato com’è da una scelta per lui impossibile tra crollo economico e ostilità dei nazionalisti. Oltretutto, se nessuno troverà il modo di aprire un vero e urgente negoziato che dia al Cremlino lo spazio interno per disimpegnarsi dall’Ucraina orientale, si arriverà alla sconfitta militare dei filorussi di Donetsk e di Luhansk. Con la non trascurabile difficoltà di capire se Putin, guardando dentro casa sua, potrà permetterla .

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