martedì 21 ottobre 2014

PD-51_IGNAZI

 L’ANALISI
Che cosa vuol dire partito-nazione
PIERO IGNAZI
PER ora il segretario Renzi non rottama il partito. Anzi. Demitizzando le primarie a strumento tra i tanti per scegliere candidati e dirigenti il segretario re-introduce un elemento cardine di qualsiasi organizzazione politica che si voglia stabile: il ruolo centrale della classe dirigente. Ora che Matteo Renzi e la sua corrente (del resto, che cosa è la Leopolda se non una classica riunione di corrente, per quanto smart e cool nella forma) sono alla barra del timone si rendono conto che più un partito è “liquido”, più è contendibile.
PERCHÉ oggi non ci sono competitor al segretario, ma se domani le cose dovessero andare male tutto può succedere. Come ricordava domenica Eugenio Scalfari, nessuno è insostituibile: non per nulla, anche dopo De Gaulle non ci fu il paventato diluvio. Quindi, seguendo il motto degli antichi romani, meglio essere pronti ad ogni evenienza. E se si dispone di una organizzazione, ramificata, efficiente e coesa, i momenti critici si attraversano indenni. Ricordino i dirigenti Pd che intonano ossessivamente il mantra salvifico e beneaugurante del risultato elettorale delle elezioni europee di giugno che, in ogni paese e per tutte le elezioni per il parlamento di Strasburgo, la relazione tra voto europeo e nazionale è assai labile… Del resto, cosa rimase del primato conquistato dal Pci alle europee nel 1984? Nulla. Per questo, ritornare ai fondamentali organizzativi di ogni grande partito europeo è cosa saggia e prudente. Poi, lo spazio per le innovazioni è enorme, tanto che, in Europa, le formazioni politiche più importanti studiano e sperimentano nuove forme di partecipazione interna, di trasmissione delle domande dal basso all’alto, di coinvolgimento dei cittadini, di responsabilizzazione e gratificazione dei dirigenti locali, e così via. Anche il Pd deve rinnovarsi e ripensarsi abbandonando alcune velleità inserite al momento della sua fondazione, e affrontando soprattutto il problema del buon uso della rete (quello cattivo lo fa già Beppe Grillo).
Il segretario ha rimandato la discussione su questo punto ad un momento di maggiore approfondimento. Segno che il tema merita riflessione. Ma alcune indicazioni sono già emerse anche perché ogni partito si struttura in rapporto agli obiettivi che si propone. Il Pd, oggi, ama definirsi “partito della nazione”, sul modello britannico: un partito che rappresenta interessi e valori trasversali al punto da ambire, potenzialmente, alla maggioranza assoluta dei consensi. In effetti, il vuoto politico che attualmente circonda i democratici consente lo- ro di porsi obiettivi così ambiziosi: solo una catastrofe economica — come auspica Grillo — può cambiare radicalmente le prospettive. Un partito della nazione recluta a destra e a sinistra, attrae imprenditori e operai, laici e cattolici, dipendenti pubblici e partite Iva. Proprio come voleva fare il Berlusconi del 2001 quando incombendo da quei manifesti giganti con il suo migliore sorriso a 32 carati si rivolgeva a tutte le categorie sociali. Forza Italia non aveva problemi a porsi come un partito “pigliatutti” perché il suo moderatismo (apparente) e il suo benpensantismo condito da qualche fremito anti-establishment si riassumevano nella figura del leader. Il Pd è (ancora) refrattario a ridursi interamente ad un PdR, ad un “Partito di Renzi” secondo il brillante conio di Ilvo Diamanti. Per quanto il segretario-premier domini la scena, il partito sul territorio esiste ancora; e se i circoli languono, le feste dell’Unità resistono bene, a riprova che qualcosa nell’organizzazione politica tradizionale va cambiato.
Il “partito” per quanto un po’ ammaccato — ma non è reponsabilità di Renzi — (r) esiste ancora ed i suoi riferimenti ideali si rifanno tuttora alla tradizione della sinistra di classe e del cattolicesimo democratico. Non è emerso ancora nulla di nuovo e di trasversale, al di là di alcune provocazioni e battute. Non esiste un profilo ideologico del partito della nazione. La stessa debolezza progettuale del partito a vocazione maggioritaria veltroniano rischia di riverberarsi sul progetto renziano. Tra l’altro, le ricerche effettuate dopo le primarie del dicembre 2013 indicano una divaricazione tra iscritti, votanti alle primarie ed eletti all’Assemblea nazionale: gli iscritti sono più sinistra dei votanti che, a loro volta, sono più sinistra dei delegati. Cosa cementa allora questa “comunità” politica, come la chiama il segretario? Su quali valori si fonda per attrarre sostegno da ogni dove? O è solo il profumo del potere che oggi seduce e domani, una volta svanito, allontana? Un grande partito seduce per la forza delle sue idee, dei suoi progetti, delle sue convinzioni. Il resto è contorno, utile per vincere (come accadde a Berlusconi), inutile per costruire.



 LA POLEMICA
Il cerchio rosso sui dissidenti
SEBASTIANO MESSINA
BEPPE Grillo ha decapitato la dissidenza del Circo Massimo segnando su Facebook le teste dei colpevoli con un cerchio rosso, e Gianroberto Casaleggio ha risposto a quei quattro che gli chiedevano dal palco un po’ più di trasparenza espellendoli in un post scriptum. Ormai la realtà supera la satira, nel M5s, e gli stessi militanti restano senza fiato assistendo alla degenerazione farsesca di quella democrazia del web dove tutto doveva essere meraviglioso.
E OGNI decisione sarebbe stata fantastica, e invece si scopre a poco a poco che tutti possono scrivere un post, non tutti possono parlare, pochi possono votare ma solo due persone possono decidere: uno si chiama Beppe e l’altro Gianroberto.
Chi ha votato — per restare alle ultime 48 ore — la nuova linea dura dei Cinquestelle sull’immigrazione, con quel post para-leghista di Grillo che annuncia che «i cosiddetti clandestini vanno rispediti da dove venivano», dopo che la base del partito — la Rete! — si era chiarissimamente schierata con un referendum per l’abolizione del reato di clandestinità? Chi ha discusso, sull’Europa, lo scivolamento sempre più a destra del Movimento, che dopo essersi affidato alla leadership dell’ultra-conservatore Farage — per il quale «le donne che lavorano e hanno figli valgono meno ed è giusto che guadagnino meno degli uomini» — ha aperto ieri le porte persino al polacco Iwaszkiewicz, eletto nel Partito della Nuova Destra e autore della teoria secondo cui picchiare le mogli «aiuterebbe molte di loro a tornare con i piedi per terra»? E chi ha emesso la sentenza di espulsione immediata del sindaco di Comacchio, Marco Fabbri, colpevole di essersi candidato alla Provincia per difendere gli interessi dei suoi concittadini, cacciato su due piedi con una tale brutalità da trasformare un appassionato militante in un cittadino così amareggiato, così deluso da arrivare a parlare di «una deriva squadrista e fascista»?
Ma il capolavoro del tandem Beppe& Gianroberto è stata ieri la radiazione dei quattro militanti, subito degradati a dissidenti perché avevano osato interrompere la liturgia del Circo Massimo salendo sul palco per domandare con parole semplici che le votazioni sul portale grillino fossero almeno verificabili, «e soprattutto vorremmo sapere qualcosa di questo “staff” col quale tutti ci interfacciamo ma nessuno lo conosce». Chiedevano, in una parola, solo un po’ di quella trasparenza che i cinquestelle reclamano dagli altri ma non applicano mai in casa propria. E sono subito diventati un bersaglio che Grillo ha appeso su Facebook cerchiando di rosso le loro teste, e Casaleggio ha centrato in pieno con un colpo secco: un post scriptum in coda a una delle sue allegre profezie, «Press Obituary”, necrologio della stampa: «I quattro sono fuori dal M5S».
È difficile capire perché un abilissimo stratega della comunicazione e un formidabile comunicatore siano scivolati nella trappola di rispondere a un’accusa di scarsa trasparenza con una sentenza assolutamente priva di trasparenza. Perché anche nella non-democrazia inventata dai grillini, Casaleggio non avrebbe in teoria alcun potere: non ha incarichi, non è stato eletto, non è stato nominato. Tutti sappiamo, per carità, del suo ruolo fondamentale nella nascita e nella crescita del Movimento, ma come può una forza politica che si candida a governare il Paese dare di sé l’immagine di una setta nella quale il potere massimo — quello di decidere chi è dentro e chi è fuori — è nelle mani di un’eminenza grigia che non risponde a nessuno se non al suo socio?
Grillo invece — che non si è mai candidato alle elezioni perché una vecchia condanna lo priva di uno dei requisiti che lui stesso pretende dagli altri — una carica ce l’avrebbe: quella di presidente del Movimento. Se l’assegnò da solo, una sera di dicembre di due anni fa, davanti al notaio di Cogoleto nominando vicepresidente suo nipote Enrico e segretario il suo commercialista. Una carica che lui non ostenta, e che gli serve solo per decidere chi è candidabile e chi no, quale meetup avrà il simbolo e quale no, e soprattutto chi va cacciato e chi può rimanere. Purché stia buono, canti in coro la canzoncina che lui ha scritto e non si azzardi a fare mai una domanda indiscreta sulla trasparenza di un movimento dove tutto è sempre magnifico, incredibile e stupendo, un luogo magico dove comandano finalmente i cittadini, i militanti, la Rete, mentre lui e Casaleggio prendono solo le decisioni.





 Il premier punta al 51%. Le simulazioni del voto anticipato
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
Puntare al 51 per cento. O avvicinarsi molto, che avrebbe lo stesso effetto. Uno studio che gira tra i corridoi del Senato ha testato le proiezioni di un voto con la legge elettorale attualmente in vigore, ovvero il Consultellum: proporzionale puro con le preferenze e sbarramenti piuttosto alti. I risultati sono sorprendenti. Basterebbe ottenere un risultato intorno al 44-45 per cento (che gli sbarramenti favorirebbero) per avere la maggioranza sia a Montecitorio sia a Palazzo Madama. Il Pd, grazie al 40,8 delle Europee, è già abbastanza vicino. Un allargamento ai pezzi della sinistra di Sel e ai centristi di Scelta civica lo lancerebbe verso il traguardo. «Quei numeri sono alla nostra portata», ripete Renzi ai fedelissimi.
Da questo punto di vista e ascoltate le parole del premier-segretario, molti degli esponenti della direzione Pd si sono convinti che tutto sembra muoversi verso le elezioni anticipate la prossima primavera. Su questo il premier avrebbe sondato il terreno presso Forza Italia. Ma è un’aria che viene annusata in tutto il Parlamento. Dal Pd ai berlusconiani. E non solo. Da giorni Angelino Alfano e Gaetano Quagliariello stanno riflettendo su una exit strategy per non trovarsi schiacciati tra Largo del Nazareno e Arcore. I sondaggi descrivono una situazione pericolosa per i transfughi dell’ex Pdl. «Dobbiamo cambiare nome al partito», dicono. Solo un inizio, anche se il traguardo è chiaro. Un’alleanza con il Partito democratico nel caso dovesse essere confermato il premio di maggioranza alla coalizione. Un ingresso sotto le ali renziane se invece prevalesse la linea di un bonus alla singola lista. Oppure, se alla fine il voto venisse consumato con il sistema uscito dalla Corte costituzionale, con il 2,5 per cento dei sondaggisti, l’adesione al Pd sarebbe inevitabile. È un percorso, quello immaginato dai vertici dell’Ncd, che non si può certo fare all’insegna del “centrodestra”. Da qui il lavorìo sulla modifica della ragione sociale. Premessa obbligata al dialogo con il premier.
Renzi definisce questo modello aperto a tutti, realizzatore di una vera vocazione maggioritaria nei numeri, il Partito della Nazione. Una forza politica capace di parlare a diversi strati della società, di farsi votare trasversalmente: dai giovani e dagli anziani, dai datori di lavoro e dai lavoratori, dagli uomini e dalle donne. Assomiglia in modo impressionante a come è stata costruito l’appuntamento della Leopolda, negli ultimi 4 anni. Una kermesse dove, da Nord a Sud, si possono sentire protagonisti persone molto diverse fra loro. Negli Stati uniti si chiama catch all party ossia il “partito pigliatutto”.
Uno studio molto simile a quello che passa di mano in mano al Senato è contenuto in una cartellina che Denis Verdini si porta sempre dietro. In una riunione l’ha anche mostrato al presidente del consiglio. Ed è l’argomento forte che il plenipotenziario fiorentino usa per convincere Silvio Berlusconi ad aprire alle modifiche dell’Italicum suggerite da Renzi. «Senza di te che sei incandidabile e con le preferenze, Forza Italia rischia seriamente di sparire», sussurra Verdini nell’orecchio dell’ex Cavaliere. «E Matteo può avere la maggioranza comunque».
Dunque, da Arcore la proposta è accelerare sull’Italicum, anche con le modifiche. Compresa l’idea di cancellare dal testo l’articolo 2. Quell’articolo è la clausola di salvaguardia pretesa dalla minoranza del Pd e da Forza Italia (quattro mesi fa): prevede che la nuova legge elettorale sia valida solo per la Camera, in attesa della definitiva cancellazione del Senato. Un norma anti-elezioni anticipate. Ma se Verdini e Renzi cominciano a lavorare sull’annullamento della clausola, la prova di una voglia elettorale che coinvolge sia Largo del Nazareno sia Arcore diventerebbe certa. Come le impronte digitali o il Dna. Allora nel Pd la scissione non sarebbe più solo una chiacchiera.
Andrea Romano è solo l’apripista di Scelta civica. Lo hanno preceduto Gregorio Gitti e Lorenzo Dellai, transitando senza clamori nel gruppo Pd alla Camera. Ma so- no pronti a seguirlo i senatori Linda Lanzillotta, Pietro Ichino e Alessandro Maran. Tre ex Pd che finalmente si riconoscerebbero nella linea di Largo del Nazareno dopo aver sbattuto la porta ai tempi di Bersani. Quindi, un’intera storia verrebbe rinnegata. Una stagione passerebbe agli archivi e il partito cambierebbe davvero verso o meglio natura. Stefano Fassina si sfogava ieri alla fine della direzione: «Il punto è: su quale asse di cultura politica e di programma il Pd si allarga e diventa altro? Dietro l'abbraccio a tutti porta avanti gli interessi dei più forti?». Gianni Cuperlo ironizza, ma a modo suo, dicendo la sua verità: «Finchè non arrivano Razzi e Scilipoti, io resisto». Però dall’ex sfidante è arrivato l’attacco più sottile ieri pomeriggio. Quando parla di “partito parallelo” Cuperlo parla di un partito diverso, non quello che hanno costruito i Ds, anche i Ds.
Ma Renzi vuole smontare il tabù identitario del Pd, stravolgerlo, consegnarlo alla storia e passare oltre. «Manca Verdini - sibila Pippo Civati citando Bennato -. Poi si parte. Prima stella a destra, questo è il cammino...». Anche se, almeno all’apparenza, sono gli altri a seguire il cammino di Renzi, a essere ipnotizzati dal leader del Pd, dalla sua forza e dai suoi consensi.

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