martedì 26 aprile 2016

L'affare della povertà

da Galimberti Umberto - I miti del nostro tempo

5. Ai margini del mercato: la povertà

Il mercato si regge sull'intreccio fra produzione e consumo, due aspetti di un medesimo processo, dove decisivo è il carattere circolare del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci.

All'inizio e alla fine di queste catene di produzione (di merci e di bisogni) si trovano gli esseri umani, instaurati come produttori e come consumatori, con l'avvertenza che il consumo non deve essere più considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Come ci ricorda Günther Anders,12-16 là dove la produzione non tollera interruzioni, le merci "hanno bisogno" di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia "prodotto".

A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che "non si può non avere". In una società consumista come quella che impone il mercato, dove l'identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma "devono" essere sostituiti, non si può dar torto ad Anders là dove scrive: "Ogni pubblicità è un appello alla distruzione".12-17

Si tratta di una distruzione che, ci ricorda sempre Anders, "non è la fine naturale di ogni prodotto, ma il suo fine".12-18 E questo non solo perché altrimenti si interromperebbe la catena produttiva, ma perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un'esistenza, ma fin dall'inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo, il mercato usa i consumatori come suoi alleati "per garantire la mortalità dei suoi prodotti, che è poi la garanzia della sua immortalità".12-19

Si conferma così il tratto nichilista della nostra cultura economica dove il consumo, costretto a diventare "consumo forzato", eleva il non-essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza, il loro non permanere a condizione del suo avanzare e progredire.  Ma una società che si rivolge ai suoi membri solo in quanto consumatori, capaci di rispondere positivamente alle tentazioni del mercato per mantenerlo attivo e scongiurare la minaccia della recessione, crea, secondo Zygmunt Bauman, una nuova classe di poveri che – a differenza di quelli di un tempo, che tali erano perché non riuscivano a inserirsi nei processi di produzione – sono colpevoli di non contribuire al consumo e, "in quanto non consumatori o consumatori inadeguati e difettosi, sono un peso morto, una presenza totalmente improduttiva".12-20

Configurandosi come una pura perdita, un buco nero che inghiotte servizi senza nulla restituire, con i poveri, per la loro inutilità e perché nessuno ha bisogno di loro, si può praticare la "tolleranza zero". Si può bruciar loro le tende se vivono accampati, come spesso ci riferiscono le cronache, non per ragioni razziali come è facile credere e propagandare, ma perché, ci ricorda Bauman:

Nella società dei consumi, la povertà è inutile e indesiderabile. L'unica via attraverso la quale i poveri potrebbero riscattarsi è quella che conduce al centro commerciale, [...] dove potrebbero ottenere, se non la riabilitazione, almeno quella "libertà condizionata" dal loro accettabile consumo.12-21

Se poi passiamo dalla povertà di casa nostra all'immensa povertà del resto del mondo, che sussulto provoca questo spettacolo al nostro senso morale? Nessuno. Anche se sappiamo che la povertà non è solo mancanza di cibo, non è solo un incontro quotidiano con la malattia e con la morte. L'estrema povertà è la fuoriuscita dalla condizione umana e insieme la sua riapparizione come "incidente della storia", che fa la sua comparsa televisiva quando i conduttori della storia passano da quelle lande disperate che un giorno chiamavamo "Terzo mondo" e che ora, visti i tenori di vita raggiunti dal Primo mondo, potremmo chiamare "non-mondo", puro incidente antropologico, non dissimile da quegli incidenti geologici o atmosferici che, sotto il nome di terremoto o alluvione, chiedono soccorso.

Ma cos'è un "soccorso umanitario" se non la latitanza del nostro sentimento morale che si accontenta di un gesto di carità, senza avere la forza di sollecitare la politica? E qui non penso alla politica che fa gli affari con la fame nel mondo, penso alla politica come al non-luogo della decisione, perché la decisione avviene altrove, in quell'altro teatro, il mercato, che ha ridotto la politica a un siparietto di quinta, dove ha luogo la rappresentazione democratica di interessi che operano dietro la scena e lontano dagli schermi.

E allora che cosa resta dell'immensa e sconfinata povertà del mondo? Null'altro che la singola e isolata testimonianza che, gettando per un giorno un fascio di luce sul continente buio della miseria, vorrebbe sollecitare la coscienza e la sensibilità di quanti non hanno come problema quotidiano quello di non morire di fame.

Quando, senza scomporci, veniamo a sapere dalla stampa e dalla televisione che nella regione dei Grandi Laghi africani, nel Sudan e nel Darfur, due milioni di uomini, donne e bambini sono stati ammazzati a colpi di machete e un altro milione manca all'appello, che non si fa a nominativo, ma per cifre che oscillano, a seconda dei diversi calcoli delle organizzazioni locali e internazionali, nell'ordine di decine di migliaia, davvero consideriamo questi esseri umani nostri "simili", simili a noi europei o americani, o non piuttosto simili a un gregge di cui non ci interessa la sorte?

E perché non ci interessa? Perché non muove il nostro sentimento morale? Perché forse sappiamo, anche se poi rimuoviamo il pensiero, che il nostro benessere dipende dalla loro disperazione? E allora nessun sussulto morale. Anzi, prendere in considerazione e fermare la nostra attenzione su questi eventi oggi sembra non sia neppure politicamente corretto, in nome del "sano realismo" a cui si ispira la politica.  Sano realismo che, tradotto, significa lasciare libero gioco alla "volontà di potenza", deprecabile quando Nietzsche la indicava come anima della storia incondizionatamente accettata quando passa sotto il nome di "Realpolitik".

Del resto la povertà non attrae. È il rimosso di tutti. Nessuno la va a cercare. La carità che si fa con una mano è raramente accompagnata da uno sguardo capace di incontrare lo sguardo di un miserabile, perché la sua vista inquieta. Per giunta è la stessa povertà che tende a nascondersi, per vergogna, per pudore. Tentativi non necessari, tanto nessuno la vede, e meno ancora la guarda. Fondamentalmente nessuno se ne occupa. Al massimo qualche gesto senza neppure guardare in faccia il destinatario. A volte persino una catena di gesti che però non entrano in contatto con la povertà, ma solo con l'organizzazione deputata a soccorrerla. Così la povertà non si vede, se non in qualche flash televisivo tra una forchettata e l'altra.

Ciò che non si vede non esiste, o esiste come sentito dire, come statistica, dove i numeri hanno il solo compito di cancellare i volti di quei poveri a cui la miseria ha già tolto se non il pane, come accade nel resto del mondo, certo quasi tutte le possibilità che il vivere in Occidente concede ai suoi abitanti.

Nascosta allo spettacolo quotidiano, espulsa dal linguaggio, la povertà sembra vivere solo nel gesto distratto di una mano che allunga qualcosa che non cambia di un grammo la nostra esistenza. E così, non toccata, anche la nostra esistenza si rende immune alla presenza anche massiccia della povertà. Una povertà silenziosa, densa come la nebbia che in modo impercettibile ci tocca da ogni parte e che può passare inosservata solo a colpi di rimozione percettiva, visiva, linguistica.

Ma il rimosso ritorna. E non ritorna come senso di colpa, da cui è facile lavarsi con un gesto di carità. Ritorna come atrofizzazione della nostra esistenza che, per non percepire, non vedere, non sentire quel che inevitabilmente la tocca, deve procedere a tali colpi di amputazione in ordine alla sua percezione del mondo da diventare alla fine una povera esistenza. E qui la povertà materiale di coloro che, invisibili, si muovono nei bassifondi delle condizioni impossibili d'esistenza compie la sua vendetta mutilando la sensibilità della nostra esistenza, per consentirle di non percepire che il nostro stato di benessere dipende direttamente dallo stato di povertà del mondo.

Attraversati da questa sensazione, conscia o inconscia che sia, resistiamo a entrare in contatto non solo con la povertà del mondo, ma anche con la sua percezione, e perciò siamo costretti a raccontarci un mondo diverso da quello che è, e a prender dimora in uno spazio di falsificazione, dove la nostra esistenza, per non vedere, è costretta a mutilare la sua sensibilità e a divenire apatica a se stessa e povera di auto percezione.

Per questo non sappiamo più chi siamo, perché la rimozione che abbiamo fatto delle condizioni di povertà del mondo è stata possibile solo con l'amputazione della sensibilità e della percezione della nostra esistenza. E allora, se i poveri non hanno pane, noi, che per non vederli abbiamo mutilato le nostre facoltà percettive, finiamo con il non disporre più neppure di noi. La condizione umana infatti è comune. E il privilegio di chi vuol difendersi non solo dalla povertà, ma anche dalla sua percezione, è l'inganno di un giorno.

Ciò non significa che l'Occidente è insensibile e cinico. La sua colpa non consiste tanto nella sua accresciuta insensibilità e indifferenza per le sorti del mondo (questa casomai è la conseguenza, non la causa), quanto nell'aver consentito che la povertà del mondo divenisse "smisurata", perché, come ci ricorda Günther Anders: "Di fronte allo smisurato, la nostra sensibilità si inceppa. Il 'troppo grande' ci lascia indifferenti",12-22 non freddi, perché la freddezza sarebbe già un sentimento.

E quando ci dicono che nel mondo ogni otto secondi muore di fame un bambino, il nostro sentimento si trova di fronte non a una tragedia, ma a una statistica, e piomba in una sorta di analfabetismo emotivo. Questo analfabetismo, divenuto ormai nostra cultura, è peggiore di tutte le peggiori cose che accadono nel "non-mondo", perché, scrive sempre Anders: "È ciò che rende possibile l'eterna ripetizione di queste terribili cose, il loro accrescersi e il loro divenire inevitabili, perché il nostro meccanismo di reazione si arresta quando il fenomeno supera una certa grandezza".12-23

E siccome un bambino che muore di fame ogni otto secondi è già oltre questa grandezza, per effetto di questa che Anders chiama "la regola infernale",12-24 ogni sorta di catastrofe ha via libera, non solo in quel "non-mondo" un tempo chiamato "Terzo mondo", ma anche da noi. E già se ne vedono le tracce. Eppure, anche in questo caso possiamo sempre chiudere gli occhi e mettere a tacere quel che resta del nostro asfittico sentimento morale.

Man mano che la legge del mercato rende sempre più profonda la divisione tra i ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più esclusi dal banchetto del consumismo, assistiamo a una progressiva limitazione della nostra sicurezza e della nostra libertà per effetto della "degradazione" del povero, che ha come inevitabile conseguenza la sua "medicalizzazione" quando non la sua "criminalizzazione", come avveniva nel secolo xix, prima dell'avvento dello "stato sociale".

Tagliare le spese per lo stato sociale significa infatti aumentare quelle per la polizia, per le prigioni, per i servizi di sicurezza, per le guardie armate, per i sistemi di allarme, e ridefinire la povertà come problema medico-legale o come problema di ordine pubblico. A ciò si deve aggiungere che chi è escluso o si trova sulla soglia dell'esclusione viene sospinto a forza e saldamente rinchiuso all'interno di muri invisibili, ma del tutto tangibili, che dominano i territori dell'emarginazione, aumentando considerevolmente la sensazione dell'insicurezza e dell'incertezza.

Se restringere la libertà degli esclusi non aggiunge nulla alla libertà di chi è libero, la strada dei tagli allo stato sociale può condurre ovunque tranne che a una società di individui liberi, perché, stravolgendo l'equilibrio tra i due versanti della libertà, fa sì che in qualche luogo, in qualche strada, in qualche rione, in qualche città, in qualche ora del giorno e soprattutto della notte, il piacere della libertà si dissolve nella paura e nell'angoscia. Una conferma tangibile che la libertà di chi è libero richiede, per il suo esercizio, la libertà di tutti.

Se appena ci emancipiamo dalla concezione rozza della libertà, non possiamo non renderci conto che la libertà è possibile solo nel contesto di una significativa relazione sociale, perché, se cresce a dismisura il numero dei senza dimora disagiati, anche le dimore dei più agiati non sono più tanto sicure. Se ne deduce che la libertà individuale – che oggi appare come il valore supremo e il metro in base al quale ogni virtù e ogni vizio della società intera vanno valutati – non si raggiunge con gli sforzi individuali, ma solo creando le condizioni che estendono tali possibilità a tutti.

Un compito, questo, che non è possibile perseguire individualmente, magari con la beneficenza organizzata o la carità all'angolo della strada, ma unendo le energie di tutti in quell'impresa comune che si chiama solidarietà, la sola che può garantire non solo i diritti di libertà, ma soprattutto la perpetuazione delle condizioni per l'esercizio di questi diritti.

La società dell'incertezza, che a parere di Zygmunt Bauman12-25 abbiamo preferito alla società protetta perché sembra più idonea a garantire i diritti di libertà e quindi di felicità, è in grado di produrre da sé deregulation e privatizzazione sulla spinta esercitata dal mercato globale, ma non è in grado di generare da sola, cioè senza intervento politico, la solidarietà che, come abbiamo visto, è condizione essenziale per l'esercizio della libertà.  E qui Bauman cita Albert Camus là dove scrive: "C'è la bellezza e ci sono gli oppressi.

Per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele a entrambi".12-26 Non leggiamo questa espressione come un pio desiderio, o un bisogno del cuore. La "fedeltà selettiva" alla sola bellezza, alla sola libertà, alla sola felicità individuale, per il nesso strutturale che lega la fruizione di questi valori alla solidarietà, da sola non è in grado neppure di difendere ciò che vorrebbe garantire.


12-16G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, Band II: Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten
12-17Ivi, p. 34.
12-18Ivi, p. 32.
12-19Ibidem.
12-20Z. Bauman, Homo consumens (2006); tr. it. Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria
12-21Ibidem.
12-22G. Anders, Wir Eichmannsöhne (1964); tr. it. Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995, pp. 33-34.
12-23Ibidem.
12-24Ibidem.
12-25Z. Bauman, La società dell'incertezza (raccolta di brevi saggi composti tra il 1995 e il 1997), il Mulino,
12-26Ivi, p. 24. La citazione di A. Camus, si trova in Retour à Tipasa del 1953.
12-27R. Madera, L'animale visionario. Elogio del radicalismo, il Saggiatore, Milano 1999.