mercoledì 9 novembre 2016

la_Struttura_della_Religione

il seguente brano è di Jared Diamond parla della nascità delle religioni e dei bisogni che suppliscono nella società, postulando una loro evoluzione nella organizzazione sociale e nelle comunità di riferimento:

da 'Il Mondo fino a ieri'


Alcune domande sulla religione. Definizioni di religione. Funzioni della religione e anguille elettriche. Ricerca di spiegazioni causali. Credere nel sovrannaturale. La funzione esplicativa della religione. Disinnescare l’ansia. Offrire conforto. Organizzazione e obbedienza. Codici di comportamento verso gli estranei. Giustificare la guerra. Attestati di merito. Misurare il successo di una religione. Come cambiano le funzioni della religione.
Alcune domande sulla religione.
«In principio tutti i popoli vivevano nella giungla attorno a un grande albero di casuarina e parlavano la stessa lingua. Un uomo passava tutto il tempo seduto su un ramo che si trovava all’altezza giusta perché i suoi pesanti testicoli, enormemente gonfiati a causa di un verme parassita, toccassero terra. Incuriositi, gli animali della giungla si avvicinavano per annusarglieli. Per i cacciatori non era difficile uccidere quegli animali, e tutti mangiavano in abbondanza ed erano felici.
Un giorno un uomo malvagio uccise il marito di una bellissima donna perché voleva averla tutta per sé. I parenti del morto aggredirono l’assassino e i parenti di quest’ultimo si schierarono in sua difesa, e alla fine l’assassino e la sua famiglia dovettero mettersi in salvo sull’albero di casuarina. Allora gli aggressori iniziarono a strattonare le liane che pendevano dall’albero, cercando di piegare i rami verso il basso per raggiungere i nemici.
Le liane finirono cosí per spezzarsi e i rami scattarono verso l’alto con una forza tremenda. L’assassino e i suoi parenti furono sbalzati in ogni direzione. Atterrarono talmente lontano, e in posti talmente diversi, che non riuscirono piú a ritrovarsi. A poco a poco cominciarono a parlare lingue sempre piú distanti. È per questo che oggi esistono tante lingue e non riusciamo piú a capirci, ed è sempre per questo che i cacciatori fanno fatica a uccidere gli animali per procurarsi il cibo».
Quella che avete appena letto è una leggenda del popolo sikari, una tribú della Nuova Guinea. Appartiene alla vasta categoria dei miti sulle origini, di cui fanno tra l’altro parte le notissime leggende bibliche del giardino dell’Eden e della torre di Babele. Malgrado gli evidenti parallelismi tra la narrazione che vi abbiamo presentato e alcuni miti delle religioni giudaico-cristiane, sappiamo che i popoli tradizionali della Nuova Guinea, come molte altre società di piccola scala, non avevano né chiese, né sacerdoti, né libri sacri. Ma allora perché quel sistema di credenze tribali, pur comprendendo un mito di origine che ha qualche affinità con quelli delle religioni giudaico-cristiane, se ne differenziava cosí ampiamente per altri aspetti?
Poiché in pratica tutte le società umane conosciute ne hanno avuta una, è possibile che la religione risponda a una sorta di esigenza umana universale, o quanto meno che scaturisca da un elemento comune alla natura di ogni individuo. Ma se davvero è cosí, che nome possiamo dare a quell’esigenza o a quel tratto della nostra natura? E che cos’è in definitiva la «religione»? Sono secoli che gli studiosi dibattono questi interrogativi e i loro corollari. Perché un sistema di credenze costituisca una religione, deve necessariamente presupporre la fede in una o piú divinità, o in una forza sovrannaturale? E questo è sufficiente, o serve qualcos’altro? A che punto dell’evoluzione umana è comparsa la religione? Oggi sappiamo che circa 6 milioni di anni fa i nostri progenitori hanno cominciato a differenziarsi dai progenitori degli attuali scimpanzé: qualsiasi cosa si intenda per religione, è plausibile che gli scimpanzé non l’avessero, ma che dire dei nostri antenati di Cro-Magnon e dei cugini neandertaliani di 40000 anni fa? Possiamo ipotizzare che lo sviluppo delle religioni abbia attraversato fasi diverse, ed è lecito supporre che la cristianità, il buddismo e altre fedi rappresentino uno stadio evolutivo piú recente rispetto ai sistemi di credenze tribali? E, infine, perché in certi casi la religione sprona alla morte o al suicidio, sebbene siamo soliti associarla agli aspetti piú nobili e edificanti della natura umana?
Gli interrogativi che riguardano la religione sono di particolare interesse per un’indagine come la nostra, che mira ad analizzare l’intera gamma delle società umane, da quelle antiche e di piccola scala alle piú moderne e popolose. Persino tra i popoli che sotto altri aspetti possono dirsi moderni, la sfera religiosa è tuttora dominata da istituzioni di tipo tradizionale: le principali religioni dei nostri tempi sono nate in un periodo compreso fra piú di 3000 e circa 1400 anni fa, in società molto piú piccole e tradizionali di quelle che le professano al giorno d’oggi. Tuttavia, a seconda della scala di grandezza delle società le religioni cambiano, e ci piacerebbe molto sapere perché. La maggior parte dei lettori di questo libro, e io con loro, avranno in qualche fase della vita messo in discussione le proprie convinzioni religiose (o la mancanza di tali convinzioni). In tal caso, sapere quali e quanti significati abbia assunto la religione nelle varie società potrebbe aiutarci a trovare le risposte che fanno al caso nostro.
Spesso la religione chiede agli individui e alle società enormi investimenti di tempo e di risorse. I mormoni, per esempio, sono tenuti a devolvere alla chiesa il dieci per cento dei loro guadagni. È stato calcolato che gli indiani hopi dedicassero in media un giorno su tre alle cerimonie religiose, e che in passato un quarto della popolazione tibetana fosse composta da monaci. Quanto all’Europa medievale cristiana, la quota di risorse destinate alla costruzione e alla dotazione di personale per chiese e cattedrali, al sostentamento dei vari ordini monastici e conventuali e al finanziamento delle crociate doveva essere senz’altro rilevante. Prendendo a prestito un concetto elaborato dagli economisti, potremmo dire che la religione comporta una serie di «costi opportunità», ovvero investimenti di tempo e risorse che in altre circostanze potrebbero essere destinati ad attività piú redditizie, come ampliare le superfici coltivate, costruire dighe o mantenere eserciti di conquista piú numerosi. Se la religione non avesse offerto benefici concreti e ragguardevoli, tali da controbilanciare i costi opportunità, un’ipotetica società atea che fosse emersa in un dato momento della storia avrebbe senz’altro sgominato le società religiose e conquistato il mondo. E allora perché il mondo non è diventato ateo, e quali sono i benefici che evidentemente la religione apporta? Quali sono, in sostanza, le «funzioni» della religione?
Un credente potrebbe trovare queste domande assurde o addirittura offensive, e farci notare che la religione è una caratteristica quasi universale delle società umane semplicemente perché Dio esiste davvero, e che la sua ubiquità, esattamente come l’ubiquità dei sassi, non ci obbliga ad accertarne funzioni e benefici. Se anche voi siete credenti di questo tipo, permettetemi di invitarvi a immaginare per un solo istante un essere straordinariamente progredito, originario della galassia di Andromeda, che viaggi qua e là per l’universo a una velocità ben superiore a quella della luce (cosa ritenuta impossibile da noi umani) esplorando tutti i miliardi di miliardi di corpi celesti allo scopo di studiarne le forme di vita e i metabolismi variamente alimentati dalla luce o da altre forme di radiazione elettromagnetica, dal calore, dal vento, da reazioni nucleari, da reazioni chimiche di sostanze organiche e inorganiche. Questo abitante di Andromeda visiterà periodicamente il pianeta Terra, sul quale l’evoluzione della vita è stata possibile unicamente grazie all’energia prodotta dalla luce e dalle reazioni chimiche organiche e inorganiche. Per il breve periodo compreso tra l’11000 avanti Cristo e l’11 settembre del 2051, la Terra è stata dominata da una forma di vita che si autodefiniva umana, caparbiamente aggrappata a certe strane teorie. Tra queste, l’esistenza di un essere onnipotente chiamato Dio, il quale tra i milioni di miliardi di miliardi di specie esistenti nell’universo prediligeva per l’appunto la razza umana; a questa entità onnipotente, creatrice dell’universo, venivano spesso attribuite caratteristiche affini a quelle umane, con la sola aggiunta dell’onnipotenza. Per gli andromediani si tratta di ipotesi deliranti, degne di studio piú che di fede, giacché, al pari di molte altre creature viventi, essi sanno com’è stato veramente creato l’universo, e siccome nell’universo ci sono miliardi di forme di vita ben piú interessanti e avanzate, è assurdo pretendere che un essere onnipotente possa riversare particolare attenzione nei confronti della specie umana o avere qualcosa in comune con essa. Gli andromediani hanno inoltre appurato l’esistenza di migliaia di religioni umane, diverse tra loro fuorché per quest’unica caratteristica: i seguaci di ciascuna fede sono convinti che soltanto la loro religione sia autentica, e tutte le altre false. Da cui si deduce, in ultima analisi, che tutte le religioni sono false.
Di fatto, la fede in una divinità come quella descritta era ampiamente diffusa tra le società umane. Gli andromediani hanno ben compreso i principî della sociologia universale, e con quelli cercano di capire perché gli umani si ostinassero a professare una religione anche se ciò comportava enormi dispendi di tempo e di risorse sociali e individuali, senza contare l’istigazione a comportamenti autolesionistici e / o suicidi. È evidente, sostengono gli andromediani, che la religione offriva una qualche forma di compensazione: altrimenti le società atee, non gravate da esborsi di tempo e risorse né ostacolate da impulsi suicidi, avrebbero senz’altro rimpiazzato le società religiose. Pertanto se voi, miei lettori, doveste ritenere offensivo che si indaghi sulle funzioni della vostra religione, mi auguro che siate disposti a fare un passo indietro per domandarvi almeno quali fossero le funzioni delle religioni tribali della Nuova Guinea; oppure, ponendovi nell’ordine di idee di un visitatore andromediano, a farvi persino qualche domanda sulle religioni umane in generale.

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Funzioni della religione e anguille elettriche.
La religione è un fatto pressoché universale tra gli esseri umani e nel mondo animale non si è mai osservato nulla di lontanamente simile; ciononostante è lecito – doveroso, anzi – interrogarsi sulle origini della religione, esattamente come facciamo per altri tratti squisitamente umani come l’arte e il linguaggio. Sei milioni di anni fa le scimmie nostre antenate non conoscevano la fede, ma 5000 anni or sono, all’epoca della comparsa dei primi documenti scritti, la religione esisteva già. Cos’è accaduto dunque in quei 5995000 anni? È possibile individuare gli antecedenti della religione negli animali e nei nostri antenati umani? E infine, quando e perché è nata la religione?
L’approccio cosiddetto funzionale fornisce da sempre il quadro di riferimento piú utilizzato nello studio scientifico delle religioni, disciplina nata circa 150 anni fa. In pratica, gli studiosi cercano di rispondere alla domanda «A cosa servono le religioni?» e nel farlo notano che ogni sistema religioso impone anzitutto notevoli sacrifici sia ai singoli, sia alle società: per esempio rinunciare al matrimonio e ai figli, sobbarcarsi la fatica e la spesa di costruire enormi piramidi, uccidere i propri animali domestici e in casi estremi persino se stessi o i propri figli, senza contare il tempo impiegato a ripetere in eterno sempre le stesse parole. Per riuscire a compensare oneri tanto elevati, necessariamente una religione dovrà avere una qualche funzione e offrire qualche vantaggio: in caso contrario, nulla ne spiegherebbe la nascita e la sopravvivenza. Dunque possiamo immaginare che con l’invenzione della religione l’umanità sia riuscita a risolvere alcuni problemi: ma quali? Nei termini dell’approccio funzionale la risposta potrebbe, in sintesi, essere questa: la religione è stata inventata per assolvere a particolari funzioni e risolvere particolari problemi, come mantenere l’ordine sociale, confortare le persone ansiose, insegnare l’obbedienza politica.
Esiste tuttavia un altro approccio, emerso in tempi piú recenti dall’ambito della psicologia evoluzionistica, secondo cui la religione non si è evoluta, né è stata concepita appositamente per assolvere o risolvere scopi o problemi specifici. È assurdo immaginare che a un certo punto un aspirante leader abbia avuto la grande idea di inventare dal nulla la religione, intuendo che magari sarebbe stato piú facile dominare i suoi sudditi se li avesse convinti che c’era un motivo trascendente per costruire una piramide. Ed è altrettanto improbabile che un cacciatore-raccoglitore dotato di forte empatia, vedendo i suoi compagni di tribú intristirsi per un lutto recente al punto da rinunciare ad andare a caccia, abbia confezionato una bella storia sulla vita ultraterrena soltanto per consolarli e infondere loro nuova speranza. La religione sarebbe semmai il sottoprodotto di particolari facoltà dei nostri antenati umani e dei loro predecessori animali: facoltà che hanno avuto esiti imprevedibili e, nel corso del processo di sviluppo, poco alla volta hanno acquisito nuove funzioni.
Personalmente, in quanto biologo evoluzionista non vedo alcuna contraddizione tra questi modi di intendere l’origine della religione: si tratta semplicemente di due stadi di un identico processo. Anche l’evoluzione biologica, a ben vedere, avviene in due fasi: al semplice manifestarsi di variazioni generate da mutazioni e ricombinazioni genetiche segue infatti l’emergere, per effetto della selezione naturale e sessuale, di individui varianti che si differenziano dagli altri in base alle modalità di sopravvivenza, riproduzione e passaggio dei geni alla generazione successiva. Si scopre cioè che alcuni individui varianti esplicano alcune funzioni e risolvono i problemi della sopravvivenza meglio degli altri. La soluzione a un problema funzionale (sopravvivere in un clima piú freddo, per esempio) non si raggiunge perché l’animale si rende conto di avere bisogno di una pelliccia piú spessa, né è il clima freddo a innescare le mutazioni che portano a un ispessimento della pelliccia. Quel che avviene in realtà è che «qualcosa» (nel caso specifico, i meccanismi della genetica molecolare che governano l’evoluzione biologica) crea «qualcos’altro» (nel caso specifico, un animale con la pelliccia piú spessa o piú sottile), dopodiché, in presenza di certe condizioni di vita o di certi problemi ambientali (nel caso specifico, le temperature rigide), alcuni di quegli animali varianti, ma non tutti, si ritrovano provvisti di una funzione utile. In sintesi, la selezione naturale e la selezione sessuale agiscono su una diversità biologica prodotta dalle mutazioni e ricombinazioni dei geni, vagliando il materiale di partenza in base al criterio della funzionalità.
Seguendo un ragionamento analogo, gli psicologi evoluzionisti sostengono che la religione sia il prodotto secondario di alcune prerogative del cervello umano, sviluppatesi per far fronte a esigenze diverse dal costruire piramidi o recare conforto a parenti in lutto. Per un biologo evoluzionista si tratta di un’ipotesi plausibile e nient’affatto sorprendente. La storia dell’evoluzione è stracolma di prodotti secondari, di mutazioni che, inizialmente selezionate per svolgere una certa funzione, si sono poi sviluppate e selezionate per adempiere a un’altra. I creazionisti che mettono in dubbio la realtà dell’evoluzione erano soliti citare l’esempio delle anguille elettriche, che uccidono le loro prede con una scossa elettrica da 600 volt: secondo loro era impossibile che da una normale anguilla a zero volt si fosse sviluppata per selezione naturale un’anguilla a 600 volt, perché ciò avrebbe comportato l’esistenza di stadi intermedi rappresentati da anguille elettriche a basso voltaggio le quali, non potendo folgorare le prede con una scarica elettrica adeguata, non sarebbero riuscite a sopravvivere. In realtà sembra proprio che la capacità di dare scosse a 600 volt derivi da una serie di cambiamenti di funzione, e sia cioè il prodotto secondario delle capacità di individuare campi elettrici e di generare elettricità normalmente presenti in alcuni pesci.
Molti sono infatti dotati di organi sensoriali epidermici atti a rilevare i campi elettrici presenti nell’ambiente. I campi elettrici possono avere un’origine fisica (quando sono prodotti dalle correnti oceaniche o dal mescolarsi di acque con diverso grado di salinità) oppure biologica (se a generarli sono le contrazioni muscolari degli animali). I pesci provvisti di organi di senso capaci di avvertire i campi elettrici possono servirsene per due scopi: individuare le prede e spostarsi nell’ambiente, soprattutto di notte o in acque torbide quando la vista non è di grande aiuto. La presenza di una preda si paleserà all’organo rivelatore di campi elettrici in quanto la sua conduttività elettrica sarà ampiamente superiore a quella dell’acqua. La capacità di individuare i campi elettrici ambientali è una facoltà di tipo passivo, che non richiede il possesso di organi specializzati nella produzione di elettricità.
Alcune specie di pesci si spingono però oltre e arrivano a generare veri e propri campi elettrici a basso voltaggio, attraverso cui riescono a individuare la presenza di oggetti non solo intercettandone il campo, ma captandone le interazioni con quello da essi stessi creato. Le famiglie di pesci che possiedono organi specializzati nella generazione di elettricità sono almeno sei, e sappiamo che questi organi si sono evoluti in maniera indipendente da specie a specie. La maggior parte di essi deriva dalle membrane muscolari, tuttavia esiste una classe di pesci i cui organi elettrici si sono sviluppati dai tessuti nervosi. Lo zoologo Hans Lissmann è stato il primo a dimostrare in maniera inconfutabile l’esistenza di questa forma di rilevamento elettrico attivo, dopo che per anni i suoi colleghi avevano studiato il problema senza raggiungere risultati certi. Offrendo del cibo in ricompensa, Lissmann riuscí a condizionare i pesci elettrici stimolandoli a distinguere tra un oggetto in grado di condurre l’elettricità (per esempio un disco di metallo) e un oggetto non conduttore apparentemente identico (un disco di plastica o vetro avente forma e dimensioni simili). Ai tempi in cui lavoravo all’Università di Cambridge, in un laboratorio vicino all’edificio in cui Lissmann conduceva i suoi studi, un amico dell’insigne zoologo mi raccontò un aneddoto che mi fece capire fino a che punto quei pesci fossero sensibili ai campi elettrici. Lissmann aveva notato che verso il tardo pomeriggio dei giorni feriali, piú o meno alla stessa ora, uno dei suoi pesci dava segni di agitazione. Alla fine era riuscito a capire che proprio a quell’ora un’assistente del suo laboratorio, terminato il turno, si metteva dietro un paravento e si spazzolava i capelli prima di uscire, generando un campo elettrico che quel pesce era in grado di captare.
I pesci a basso voltaggio usano gli organi generatori di elettricità e i sensori epidermici per incrementare l’efficienza di due diverse funzioni (l’individuazione delle prede e la navigazione) comuni anche ai molti pesci dotati di sensori ma privi di organi generatori di elettricità. Inoltre i pesci a basso voltaggio usano gli impulsi elettrici anche per comunicare tra loro. Poiché gli impulsi variano a seconda delle specie e dei singoli individui, un pesce che li riceva è in grado di ricavare informazioni che gli permetteranno di individuare la specie, il sesso, le dimensioni e l’«identità» (sconosciuto o familiare) del pesce che li ha generati. Un pesce a basso voltaggio, infine, può comunicare messaggi di natura sociale agli altri individui della sua specie, ossia servirsi degli impulsi elettrici per dire: «Questo è il mio territorio, sciò!», oppure: «Ehi, pupa, vieni qui! Sei molto eccitante, voglio fare sesso con te».
Ma i pesci che riescono a generare impulsi a basso voltaggio li utilizzano anche per una quarta funzione, ossia uccidere i pesci piú piccoli di cui si cibano. Maggiore il potenziale, piú grande la preda che si è in grado di uccidere, finché si arriva alle anguille elettriche lunghe poco meno di due metri, capaci di folgorare un cavallo con una scarica da 600 volt. (Se ricordo fin troppo bene questa vicenda evoluzionistica è perché la generazione di impulsi da parte delle anguille elettriche è stata l’argomento della mia tesi di dottorato. A furia di pensare agli aspetti molecolari del fenomeno finii per dimenticarmene il risultato pratico, e cosí il giorno del primo esperimento immersi una mano nell’acqua per prelevare un’anguilla dalla vasca: fu un’esperienza elettrizzante, credetemi). I pesci ad alto voltaggio, infine, usano le loro potenti scariche elettriche per altre due funzioni: difendersi contro eventuali aggressori e praticare la cosiddetta «pesca elettrica», attirando le prede verso il proprio polo positivo o anodo. Questa tecnica è utilizzata anche da alcuni pescatori di professione, i quali tuttavia, non essendo in grado di produrre elettricità con il proprio corpo, si servono di batterie o generatori.
E ora torniamo ai creazionisti, convinti che la selezione naturale non avrebbe mai potuto produrre un’anguilla da 600 volt a partire da una normale anguilla non elettrica, semplicemente perché in tutti gli stadi intermedi gli organi elettrici a basso voltaggio sarebbero stati inutili a garantire la sopravvivenza delle anguille. La risposta alle loro obiezioni è che in origine quegli organi elettrici non servivano a uccidere le prede con una scossa da 600 volt: quella funzione si è sviluppata solo in un secondo tempo, come effetto secondario di un organo inizialmente selezionato per svolgere altre funzioni. Come abbiamo appena visto, gli organi elettrici hanno assunto sei funzioni successive man mano che la selezione naturale accresceva da zero a 600 l’intensità degli impulsi generati: un pesce che non emetta impulsi elettrici può servirsi del rilevamento passivo per individuare le prede e muoversi nell’acqua torbida; un pesce a basso voltaggio può svolgere le stesse due funzioni con maggiore efficienza, e in piú sarà in grado di comunicare; un pesce ad alto voltaggio può folgorare le prede, difendersi, e praticare la «pesca elettrica». Nelle prossime pagine vedremo come la religione abbia battuto le anguille di un punto, acquisendo non sei ma ben sette funzioni successive.



Ricerca di spiegazioni causali.
Di quali facoltà umane la religione potrebbe dunque essere un sottoprodotto? Un’ipotesi plausibile è che si tratti di una sorta di effetto collaterale del progressivo affinamento da parte del cervello della capacità di dedurre cause, agenti e intenti, di prevedere pericoli e formulare spiegazioni causali di valore predittivo, utili cioè alla sopravvivenza. Naturalmente anche gli animali hanno un cervello, e in certi casi possono prevedere le intenzioni altrui. Per esempio, un barbagianni che nella completa oscurità avverta la presenza di un topo sarà in grado, udendo il rumore dei suoi passi, di calcolarne il tragitto, la velocità e l’eventuale intenzione di proseguire la rotta: questo gli permetterà di intercettare la traiettoria del topo e di piombargli addosso precisamente nel momento e nel luogo ideali per catturarlo. Tuttavia gli animali, anche i piú strettamente imparentati con noi, hanno una capacità di ragionamento decisamente inferiore rispetto agli umani. La scimmia africana comunemente detta cercopiteco verde, per esempio, è una preda molto ambita dai pitoni terricoli: quando una di queste scimmiette avvista un pitone lancia uno speciale grido di allarme e tutti i cercopitechi verdi che si trovano nei paraggi saltano immediatamente sull’albero piú vicino. Il fatto sconcertante, però, è che le scimmiette non siano in grado di associare l’eventuale avvistamento dellascia di un pitone nell’erba con la presenza di un pitone nelle vicinanze. Provate ora a confrontare le limitate capacità di ragionamento dei cercopitechi verdi con la raffinata ingegnosità di noi umani: la selezione naturale ha perfezionato i nostri cervelli rendendoli capaci di estrarre il massimo contenuto informativo dagli indizi piú banali e, anche se spesso può capitarci di tirare conclusioni sbagliate, di veicolare con esattezza le informazioni attraverso il linguaggio.
Sappiamo per esempio, e diamo per scontato, che siamo tutti dotati di agentività (la facoltà di far accadere le cose e di intervenire sulla realtà) e che ciascuno agisce per un proprio intento ed è un individuo a sé. Per questo gran parte della nostra attività cerebrale è finalizzata a comprendere gli altri e a interpretare i segnali che ci inviano (espressioni del viso, inflessioni della voce, azioni compiute o mancate, parole dette o non dette), nel tentativo di prevedere le loro azioni future e possibilmente di influenzarle secondo i nostri desideri. In maniera analoga attribuiamo agentività anche agli animali: i cacciatori !kung che si avvicinano alla carcassa di un animale mentre i leoni se ne stanno cibando osservano le loro pance e il loro comportamento per cercare di capire se sono già sazi, e quindi si lasceranno allontanare, o se magari hanno ancora fame. Sappiamo inoltre attribuire agentività a noi stessi: ci accorgiamo che le nostre azioni producono conseguenze, e se notiamo che un certo comportamento dà esiti positivi e un altro no, impariamo a ripetere l’azione che produce buoni risultati. Il successo della nostra specie si deve soprattutto al nostro cervello e alla sua capacità di scoprire i legami di causalità. È per questo che già 12000 anni fa, quando erano ancora cacciatori-raccoglitori e non conoscevano né l’agricoltura, né la lavorazione dei metalli, né la scrittura, gli umani erano già la specie mammifera di gran lunga piú diffusa sul pianeta, al punto da aver colonizzato tutti i continenti e tutte le latitudini, con la sola eccezione dell’Antartide.
Noi umani non smettiamo mai di ipotizzare relazioni di causalità. Alcune spiegazioni tradizionali ci hanno in passato consentito di fare previsioni esatte per ragioni poi dimostratesi scientificamente valide; in altri casi le previsioni erano attendibili anche se i fondamenti del ragionamento erano errati («Non bisogna mangiare quel certo tipo di pesce perché è tabú» era una regola che prescindeva dalla reale comprensione della velenosità di quei pesci); altre volte, infine, interpretazioni corrette davano luogo a previsioni errate. È il caso per esempio dei molti popoli di caccia e raccolta che attribuiscono agentività non solo a uomini e animali, ma anche ad altri «soggetti» in movimento come i fiumi, il sole e la luna: i popoli tradizionali tendono spesso a credere che i corpi celesti siano creature vive, oppure cose mosse da creature vive. A volte sono investite di agentività anche cose che non possono muoversi, come i fiori, le montagne o le rocce. Oggi etichettiamo questi atteggiamenti come espressioni di fede nel sovrannaturale, inteso come qualcosa di diverso da ciò che si considera naturale, ma spesso i popoli tradizionali non fanno questa distinzione. Il loro procedimento consiste nel formulare spiegazioni di tipo causale e osservarne il valore predittivo: l’idea che il sole (o la divinità che trasporta il sole nel suo carro) compia ogni giorno un certo tragitto nel cielo corrisponde al dato visivo. Ma poiché i popoli tradizionali non hanno conoscenze di astronomia tali da convincerli che la loro fede sovrannaturale nel sole in quanto agente animato è errata, non si può dire che la loro teoria sia sciocca: è semplicemente un’estensione logica delle loro conclusioni riguardo a certi fatti naturali.
Tra i vari modi in cui la nostra ricerca di spiegazioni causali finisce per eccedere in generalizzazioni, portandoci direttamente a quella che oggi definiremmo «fede nel sovrannaturale», uno consiste dunque nell’attribuire agentività alle piante e agli oggetti inanimati. Un altro modo consiste nel ricercare nel nostro comportamento le cause di quanto accade fuori di noi: se per esempio in una certa annata un campo che ha sempre dato ottimi raccolti produce molto meno del solito, il contadino si domanderà che cosa ha fatto lui di diverso stavolta; allo stesso modo, se un cacciatore kaulong cade in una buca nella foresta, i suoi compagni si domanderanno dove ha sbagliato. L’uno e gli altri si spremeranno le meningi per trovare una spiegazione e formuleranno un certo numero di ipotesi, alcune scientificamente corrette, altre equiparabili a tabú privi di ogni fondamento scientifico. I contadini delle Ande, per esempio, non sanno nulla in fatto di coefficienti di variazione, tuttavia distribuiscono le loro coltivazioni in un numero di campi che varia da 8 a 22 (cap. VIII), anche se niente esclude che in passato abbiano anche rivolto preghiere alle divinità della pioggia; i cacciatori kaulong, invece, fanno attenzione a non pronunciare ad alta voce il nome dei pipistrelli mentre dànno loro la caccia in aree di foresta disseminate di buche. Oggi sappiamo che disperdere i campi è un metodo scientificamente valido perché il loro rendimento rimanga al di sopra di un certo valore minimo, e sappiamo anche che pregare le divinità della pioggia o evitare di pronunciare il nome dei pipistrelli sono superstizioni religiose prive di valore scientifico. Ma i contadini delle Ande e i cacciatori kaulong non fanno distinzione tra metodo scientifico e superstizione religiosa.
Un altro ambito nel quale è facile eccedere nella ricerca di spiegazioni causali è quello della salute. Una malattia, come ogni altro evento di una certa importanza, suscita in noi il bisogno di spiegazioni: il paziente ha forse fatto qualcosa di particolare (dissetarsi a una certa fonte, per esempio) o tralasciato di fare qualcosa (lavarsi le mani prima di mangiare, invocare l’aiuto di uno spirito)? O magari la responsabilità è da attribuire a una terza persona (un altro ammalato che ha starnutito nella sua direzione, uno stregone che ha lanciato un maleficio)? Come i popoli tradizionali, anche noi abitanti del Primo Mondo, che pure viviamo nell’era della medicina scientifica, ci ostiniamo a cercare spiegazioni per ogni stato patologico. Siamo convinti che certi comportamenti (bere a una certa sorgente, non lavarsi le mani prima di mangiare) possano causare malattie, mentre altri (sollecitare la protezione di un certo spirito) non possano. Tuttavia non ci piace sentirci dire che abbiamo il cancro allo stomaco perché abbiamo ereditato la variante 211 del gene PX2R: la spiegazione non ci soddisfa, ci trasmette un senso di impotenza, cosí preferiamo pensare che forse è per via di quel che abbiamo mangiato. I popoli tradizionali cercano rimedi per le malattie esattamente come facciamo noi quando le cure mediche si dimostrano inefficaci. È vero che a volte le terapie tradizionali sembrano apportare benefici, tuttavia i fattori in gioco possono essere molti: la maggior parte delle malattie guarisce comunque per conto proprio; è stato dimostrato che molti rimedi vegetali di tipo tradizionale hanno un’effettiva utilità farmacologica; oppure può darsi che lo sciamano riesca con il suo atteggiamento fiducioso a rincuorare il paziente, generando un effetto placebo; inoltre attribuire una causa – per quanto non vera – alla malattia lenisce il senso di impotenza dell’ammalato, consentendogli di attuare contromisure che lo fanno sentire meglio; e se alla fine il paziente muore, se ne deduce che probabilmente aveva violato qualche tabú, oppure che la malattia era stata provocata da un potente stregone che bisogna identificare e uccidere.
A volte il nostro bisogno di spiegazioni causali ci porta a voler decifrare eventi per i quali la scienza moderna fornisce quest’unica, deludente risposta: «Non c’è nessuna spiegazione, smettete di cercarne una». Un problema fondamentale di molte religioni organizzate, per esempio, è la teodicea, tema centrale del Libro di Giobbe: se esiste un dio buono e onnipotente, perché questo dio tollera il male? I popoli tradizionali, per i quali non c’è nulla di strano nel discutere un’ora intera su un pezzetto di ramo piantato a terra, non si tireranno certo indietro davanti al triste caso di una persona apparentemente rispettosa delle regole sociali che è stata ferita, sconfitta in combattimento o uccisa. Ha forse violato qualche tabú, sono stati gli spiriti malvagi, oppure qualcosa ha scatenato l’ira degli dèi? A maggior ragione, i popoli tradizionali cercheranno a tutti i costi di spiegarsi perché una persona che poco prima respirava, si muoveva ed era calda può a un certo punto diventare fredda, non respirare e non muoversi piú: forse una parte (chiamata spirito) di quella persona è fuggita dal suo corpo ed è trasmigrata in un uccello, oppure continua a vivere altrove? Qualcuno potrebbe obiettare che quelle domande ambiscono a dare un «significato» piú che una vera e propria spiegazione, laddove la scienza può fornire soltanto spiegazioni: chi è alla ricerca di significati farebbe bene a rivolgersi alla religione, oppure rassegnarsi all’idea che cercare un senso non ha senso. Ma in passato, e in parte ancora oggi, l’esigenza di trovare un «significato» reclamava a gran voce una risposta.
In sintesi, quella che oggi chiamiamo religione potrebbe essere stata in origine un prodotto secondario della crescente accuratezza con cui il nostro cervello imparava a formulare spiegazioni causali e a fare previsioni. È probabile che per molto tempo non vi sia stata una distinzione precisa tra naturale e sovrannaturale, ovvero tra la sfera religiosa e le altre dimensioni della vita. E se qualcuno mi domandasse in che punto dell’evoluzione umana sia sorta la «religione», la mia ipotesi è che il tutto sia avvenuto in modo molto graduale, a mano a mano che il nostro cervello diventava piú complesso. Piú di 15000 anni fa gli uomini di Cro-Magnon erano già in grado di cucirsi abiti su misura, inventare utensili e dipingere straordinarie immagini policrome di uomini e animali sulle pareti delle grotte di Lascaux, Altamira e Chauvet: ancora oggi i visitatori che scendono in quelle caverne per ammirare dipinti visibili soltanto alla luce di una fiaccola sono colti da uno stupore quasi religioso (tav. 25). Quale che fosse l’intento degli artisti preistorici, di certo le loro menti erano abbastanza moderne da albergare in sé credenze definibili come religiose. Quanto ai nostri parenti neandertaliani, che certamente decoravano le loro caverne con pigmenti a base di ocra e seppellivano i morti... be’, può darsi. Alla luce di questi argomenti, mi sembra ragionevole ipotizzare che almeno per tutti i 60000 (e passa) anni di storia del modernoHomo sapiens, e forse da molto prima ancora, i nostri antenati abbiano sempre avuto una religione.
Credere nel sovrannaturale.
Praticamente tutte le religioni coltivano specifiche credenze sovrannaturali e i loro fedeli credono fermamente in dogmi che, contrastando con l’esperienza della realtà naturale e non potendo trovarvi conferma, risultano inverosimili a chi non vi aderisca. La tabella 6 contiene alcuni esempi di queste credenze, ai quali se ne potrebbero aggiungere innumerevoli altri. Tra le molte caratteristiche delle religioni, nessuna piú di questa apre un profondo divario fra credenti e laici, al punto che chi non è religioso considera addirittura inconcepibile poter credere a certe cose. Nulla piú dei postulati sovrannaturali crea inoltre una linea di demarcazione tra fedeli di religioni diverse, tutti risolutamente convinti della verità dei propri dogmi ma increduli che i fedeli di altre religioni possano essere altrettanto convinti dei loro. E allora perché, nonostante tutto, le credenze sovrannaturali sono una caratteristica cosí universale delle religioni?
Qualcuno potrebbe rispondere che i dogmi religiosi sovrannaturali, al pari degli assiomi sovrannaturali di natura non religiosa, non sono che superstizioni frutto dell’ignoranza, utili soltanto a dimostrare che il cervello umano è in grado di autoingannarsi e di credere in qualunque cosa. Tutti siamo a conoscenza di qualche credenza sovrannaturale non religiosa la cui assurdità dovrebbe apparire piú che evidente. Molti europei, per esempio, credono che la vista di un gatto nero sia foriera di disgrazie, anche se i gatti con il mantello nero sono piuttosto diffusi. Annotando l’eventuale verificarsi o non verificarsi di eventi infausti nei sessanta minuti successivi all’osservazione (o alla mancata osservazione) di un gatto nero in un’area densamente popolata di felini domestici, e confrontando i dati con il metodo statistico del chi-quadrato, è facile constatare che l’ipotesi del gatto nero portaiella ha una probabilità di conferma inferiore a un caso su mille. Alcuni gruppi di abitanti delle pianure guineane credono che il canto armonioso del piccolo passeriforme noto come bigia terricola di pianura annunci la morte di qualcuno, ma in effetti la bigia terricola è una delle specie piú comuni in quell’area, e il suo canto si ode assai spesso. Se la credenza fosse vera, nell’arco di pochi giorni l’intera zona dovrebbe svuotarsi di ogni presenza umana: eppure i miei amici guineani sono fermamente convinti che il canto della bigia sia latore di cattive notizie, proprio come i gatti neri per gli europei.
Un’altra superstizione non religiosa assai particolare, soprattutto perché condivisa dai molti che tuttora vi investono denaro, è la rabdomanzia, nota anche come radioestesia. Già affermata in Europa oltre 400 anni or sono, e probabilmente diffusa anche prima della nascita di Cristo, questa credenza presuppone che il movimento di una bacchetta biforcuta impugnata da un iniziato detto rabdomante indichi la collocazione e talora persino la profondità a cui si trova un’invisibile riserva idrica sotterranea (tav. 46). Dalle verifiche di controllo è emerso che la percentuale di successo di un rabdomante è esattamente pari a quella di un responso casuale, ciononostante molti proprietari terrieri si affidano tuttora ai rabdomanti, soprattutto se i loro terreni si trovano in aree in cui l’individuazione delle risorse idriche risulta difficoltosa anche per i geologi; una volta ottenuto il parere del divinatore, spenderanno altri soldi per far scavare un pozzo che difficilmente porterà all’acqua. Il fondamento psicologico di queste superstizioni sta nella nostra tendenza a ricordare i successi e a dimenticare i fallimenti, cosicché anche la piú labile delle prove a favore finisce per diventare una conferma indiscutibile. Trarre conclusioni sulla base delle nostre vicende personali è un processo mentale del tutto istintivo; viceversa, i test controllati e i metodi scientifici che dovrebbero aiutarci a distinguere i fenomeni accidentali da quelli non accidentali sono innaturali e controintuitivi, e come tali ignoti alle società tradizionali.
A questo punto verrebbe da chiedersi se le superstizioni religiose non siano che un’ulteriore prova della fallibilità umana, come la paura dei gatti neri e le altre credenze popolari non religiose. A smentire questa ipotesi interviene però la constatazione che oltre a comportare oneri elevati, l’adesione a certe credenze superstiziose sia una caratteristica comune a tutte le religioni. L’investimento dei dieci gruppi di fedeli della tabella 6 nei confronti dei dogmi sovrannaturali delle rispettive religioni è (o era) assai piú oneroso in termini di impegno, tempo e conseguenze di quanto non siano le contromisure prese da chi, avendo la fobia dei gatti neri, cambi occasionalmente percorso per evitare di incontrarne uno. Invece di essere un mero sottoprodotto accidentale del raziocinio umano, le superstizioni religiose potrebbero dunque avere un significato piú profondo? E se sí, quale?
Secondo un’ipotesi recentemente formulata da alcuni studiosi delle religioni, la fede nelle superstizioni religiose serve a dimostrare l’impegno di ciascuno nei confronti della religione. Tutti i raggruppamenti umani durevoli (i tifosi dei Boston Red Sox come me, i cattolici ferventi, i giapponesi devoti alla patria, e cosí via) sono alle prese con il problema fondamentale di identificare correttamente i membri stabili e fidati del gruppo. Quanto piú forte è la compenetrazione fra la vita dei singoli e il gruppo religioso di appartenenza, tanto piú diventa essenziale identificare correttamente gli altri seguaci e non lasciarsi ingannare da chi finge di condividere gli ideali comuni soltanto per ricavarne un momentaneo tornaconto. Se riconoscete e accettate come tifoso della vostra squadra un tale che sventola la bandiera dei Red Sox, e tutt’a un tratto costui si mette a esultare davanti a un home run dei New York Yankees, vi sentirete presi in giro anche se ovviamente la cosa non metterà in pericolo la vostra sopravvivenza. Ma se un soldato che vi sta accanto sulla linea del fronte getta a terra il fucile o ve lo punta contro proprio mentre il nemico sta attaccando, il vostro errore di valutazione rischia di costarvi la pelle.
Per questo motivo l’affiliazione religiosa comporta tante prove di dedizione: sacrifici di tempo e di risorse, privazioni e altre onerose dimostrazioni di cui parleremo piú avanti. Anche l’adesione a un principio irrazionale che contraddice l’evidenza dei sensi e che gli estranei a quella religione non sarebbero mai disposti a condividere potrebbe essere considerata una prova di impegno. Se una persona dichiarasse che il fondatore della sua chiesa è stato concepito attraverso un normale rapporto sessuale tra i genitori nessuno stenterebbe a credergli, e di certo la sua affermazione non varrebbe come prova di devozione; ma se quella stessa persona si ostinasse a ripetere, contro ogni evidenza, che il fondatore in questione è stato partorito da una donna vergine, e se nessuno, neanche a decenni di distanza, riuscisse a dissuaderlo dal credere una cosa del genere, allora i suoi correligionari comincerebbero a fare assegnamento sulla profondità della sua fede e sulla sua volontà di non abbandonare il gruppo.
Persino i dogmi religiosi sovrannaturali devono tuttavia sottostare a certi limiti. Gli antropologi Scott Atran e Pascal Boyer hanno osservato, indipendentemente l’uno dall’altro, che nel mondo le credenze religiose propriamente dette rappresentano una ristretta sottoclasse di tutte le superstizioni arbitrarie e casuali che si potrebbero inventare. Per citare Pascal Boyer, non può esistere una religione che proclami: «C’è un solo Dio! È onnipotente, ma esiste soltanto di mercoledí». Di contro, gli esseri sovrannaturali in cui crediamo sono sempre stranamente simili a noi umani, a certi animali o a certi oggetti naturali, tranne per il fatto di possedere appunto poteri sovrannaturali: vedono piú lontano, vivono piú a lungo, sono piú forti, si spostano piú rapidamente, prevedono il futuro, possono cambiare forma, attraversare le pareti e cosí via. Sotto altri aspetti, però, divinità e spiriti si comportano proprio come noi. Il Dio del Vecchio Testamento era collerico, gli dèi e le dee dell’Olimpo soffrivano di gelosia, mangiavano, bevevano e facevano sesso. I poteri sovrumani delle divinità sono proiezioni delle nostre personali fantasie di potenza: agli dèi è consentito ciò che noi stessi vorremmo fare. Ammetto che anche a me (come a tutti, credo) piacerebbe scagliare saette che incenerissero i malvagi, tuttavia non ho mai immaginato di poter esistere soltanto di mercoledí. Perciò non mi sorprende che gli dèi abbiano la capacità di punire i malvagi, ma mi stupirei moltissimo se qualche religione proponesse come ideale un’esistenza circoscritta al mercoledí. Le credenze religiose sovrannaturali sono sí irrazionali, ma anche plausibili e soddisfacenti sul piano emotivo: per questo è cosí facile crederci, a dispetto della loro inverosimiglianza sul piano razionale.
Tabella 6. Dogmi sovrannaturali proclamati da alcune religioni.
1.Esiste un dio-scimmia che con una sola capriola percorre migliaia di chilometri (indú).
2.Chi riesce a sopravvivere quattro giorni in un luogo solitario senza acqua né cibo e si taglia la falange di un dito della mano sinistra può ottenere favori dagli spiriti (indiani crow).
3.Una donna non fecondata da alcun uomo restò incinta e diede alla luce un figlio maschio, che dopo la morte fu trasportato in un luogo detto Paradiso, situato in cielo (cattolici).
4.Uno sciamano, retribuito per i suoi servigi, siede in penombra all’interno di un’abitazione insieme agli adulti del villaggio. Questi ultimi tengono gli occhi chiusi mentre lo sciamano scende sul fondo dell’oceano e pacifica la dea dei mari, la cui ira è causa di sventura (inuit).
5.Per stabilire se una persona accusata di adulterio è colpevole, costringete un pollo a ingerire pastone avvelenato: se il pollo non muore, la persona accusata è innocente (azande).
6.Gli uomini che sacrificano la vita combattendo per la propria religione saranno trasportati in un paradiso popolato di bellissime vergini (islam).
7.Nel 1531, sulla collina di Tepeyac a nord di Città del Messico, la Vergine Maria apparve a un indio cristianizzato, gli parlò nella lingua nahuatl (l’idioma azteco all’epoca ancora diffuso nella regione) e gli fece cogliere delle rose in un’area desertica in cui normalmente non crescono fiori (cattolici del Messico).
8.Il 21 settembre 1823, sulla cima di una collina vicino alla località di Manchester, nella parte occidentale dello stato di New York, l’angelo Moroni apparve a un uomo di nome Joseph Smith e gli indicò il luogo ove erano seppellite alcune lastre d’oro sulle quali era trascritto il testo di un libro della Bibbia andato perduto e mai tradotto, chiamato Libro di Mormon (mormoni).
9.Un essere sovrannaturale donò un pezzo di deserto mediorientale al suo popolo prediletto, affinché vi risiedesse per sempre (israeliti).
10.Intorno al 1880, durante un’eclisse solare, Dio apparve a un indiano paiute chiamato Wovoka e gli disse che in capo a due anni i bufali sarebbero tornati a popolare le pianure e gli uomini bianchi sarebbero scomparsi, a condizione che gli indiani partecipassero a un rituale detto Danza degli Spiriti.
La funzione esplicativa della religione.
Nel corso della storia la religione ha assunto svariate funzioni: tra queste, le due piú antiche hanno perso importanza o sono diventate trascurabili nelle odierne società occidentalizzate, mentre altre funzioni che oggi hanno grande rilievo erano pressoché inesistenti nelle società di piccola scala formate da cacciatori-raccoglitori o dedite all’agricoltura. Infine, altre quattro funzioni un tempo deboli o inesistenti hanno raggiunto la massima importanza in passato e ora sono nuovamente in declino. Questo alternarsi di funzioni nell’arco di un percorso evolutivo ricorda assai da vicino le modificazioni funzionali subite nel tempo da molte strutture biologiche (come gli organi elettrici dei pesci) e forme di organizzazione sociale.
Nei prossimi sottocapitoli passeremo in rassegna quelle che a parere di molti studiosi sono sette importanti funzioni della religione, dopodiché cercheremo di capire se il fenomeno religioso nel suo complesso si stia avviando verso l’obsolescenza o se abbia probabilità di sopravvivere e, in quest’ultimo caso, quali siano le funzioni piú adatte a favorirne la conservazione. Le sette funzioni saranno trattate nell’ordine che immagino all’incirca corrispondere alla loro comparsa ed eventuale scomparsa, partendo dalle funzioni preponderanti nelle prime fasi della storia sociale umana e terminando con quelle assenti in origine ma prevalenti non molto tempo fa, o al giorno d’oggi.
Tra le finalità originarie della religione vi era senz’altro quella esplicativa: i popoli tradizionali prescientifici tentano di spiegare tutto ciò che vedono, ma ovviamente sono privi della capacità profetica che permette di distinguere tra le spiegazioni oggi considerate naturali e scientifiche oppure sovrannaturali e religiose. In sostanza, per i popoli tradizionali sono comunque tutte spiegazioni, e quelle che noi oggi consideriamo religiose non formano una categoria a sé. Molti ornitologi moderni ritengono per esempio che alcune società guineane comprendano con straordinaria sensibilità e precisione certi comportamenti degli uccelli (le varie funzioni dei loro richiami, per esempio) ma che, al contrario, altri fenomeni siano interpretati in modo sovrannaturale e ormai inaccettabile (si pensi per esempio alla credenza secondo cui certi gridi sarebbero le voci di persone trasformate in uccelli). La funzione esplicativa si evidenzia anche nei numerosissimi miti di origine, come la Genesi e la narrazione tribale citata all’inizio di questo capitolo, il cui scopo è spiegare l’esistenza dell’universo, degli uomini e della diversità linguistica. Anche gli antichi greci, pur dando spiegazioni scientificamente corrette a molti fenomeni, facevano appello all’intervento sovrannaturale degli dèi per spiegare il sorgere e il tramontare del sole, le maree, i venti e la pioggia. Ai giorni nostri, il Dio dei creazionisti (e della maggioranza degli americani) è la «causa prima» dell’universo, l’emanatore delle leggi che lo governano e ne permettono l’esistenza, il creatore di tutte le specie vegetali e animali, compresa quella umana; ciononostante, non mi risulta che i creazionisti continuino a evocare l’intervento divino per spiegare il sorgere del sole, le maree e i venti. Esistono poi molti laici che, pur attribuendo a Dio la creazione dell’universo e delle sue leggi, accettano l’idea che dopo la creazione il cosmo abbia proseguito la sua strada da solo, con scarsissima o nulla intromissione da parte di Dio.
Nelle moderne società occidentali, la funzione esplicativa originariamente svolta dalla religione è stata gradatamente usurpata dalla scienza. Oggi si pensa che l’universo abbia avuto origine dal Big Bang e dal successivo intervento delle leggi fisiche, e la moderna molteplicità delle lingue umane non è piú illustrata da miti come la torre di Babele o lo scatto dell’albero di casuarina: come vedremo nelcapitolo X, oggi siamo in grado di descrivere una serie di processi linguistici storicamente documentati. Allo stesso modo, la spiegazione delle maree o del sorgere e tramontare del sole è affidata agli astronomi, mentre il compito di chiarire le dinamiche dei venti e delle piogge spetta ai meteorologi. I canti degli uccelli sono dunque di competenza degli etologi, e dai biologi evoluzionisti ci si aspettano delucidazioni circa l’origine di tutte le specie animali e vegetali.
Per molti scienziati moderni, l’ultimo bastione della spiegazione religiosa è il concetto di Dio come causa prima: a quanto pare la scienza non ha nulla da dire sul perché l’universo esista. Tra i miei ricordi del primo anno allo Harvard College, nel lontano 1955, c’è la sfida lanciata dal grande teologo Paul Tillich alla sua classe di laureandi, invitati a fornire una risposta razionale e scientifica alla semplicissima domanda: «Perché esiste qualcosa anziché nulla?» Ricordo che nessuno dei miei compagni del corso di scienze era stato in grado di rispondere, anche se tutti avrebbero voluto obiettare che la tesi fornita da Tillich (Dio) era semplicemente il tentativo di dare un nome alla sua mancanza di risposte. Al giorno d’oggi gli scienziati stanno cercando di rispondere anche a questa domanda, e hanno già avanzato delle ipotesi.
Disinnescare l’ansia.
Ecco un’altra delle funzioni piú forti della religione nelle società primitive: alleviare l’ansia provocata dalle difficoltà e dai pericoli che sfuggono al controllo umano. Se una persona ha già tentato tutto ciò che era concretamente in suo potere per risolvere un certo problema, non le resterà altro che affidarsi a preghiere, rituali e offerte agli dèi, consultare oracoli e sciamani, interpretare presagi, osservare tabú e compiere rituali magici. Nulla di tutto ciò sarà scientificamente efficace ai fini del risultato che spera di ottenere, tuttavia quella persona potrà continuare a illudersi di stare facendo qualcosa, di non essere del tutto impotente, insomma di non essersi arresa, e le sembrerà di avere ancora il controllo della situazione, si sentirà meno ansiosa, potrà continuare a impegnarsi al meglio.
Il nostro bisogno di arginare il senso di impotenza mediante la religione è efficacemente illustrato da un recente studio su alcune donne di religione ebraica effettuato dagli antropologi Richard Sosis e W. Penn Handwerker. Durate la guerra israelo-libanese del 2006, quando i militanti di Hezbollah presero a lanciare razzi katyusha contro gli insediamenti israeliani della Galilea settentrionale, numerosi centri della regione, e in particolare la città di Safad, si ritrovarono bersagliati ogni giorno da decine di razzi. Le sirene lanciavano l’allarme quando i razzi erano già in volo e gli abitanti potevano salvarsi correndo nei rifugi, ma non potevano fare nulla per proteggere le loro case. Realisticamente parlando, i razzi costituivano una minaccia imprevedibile e incontrollabile, ma in quella difficile situazione per tenere a bada lo stress circa due terzi delle donne intervistate da Sosis e Handwerker affermavano di aver recitato ogni giorno i salmi. Invitate a spiegare perché, le donne dichiaravano di essersi sentite obbligate a «fare qualcosa», anziché starsene con le mani in mano. Naturalmente recitare salmi non serve a deviare il corso dei razzi, ma quella parvenza di iniziativa dava loro la sensazione di poter esercitare una qualche forma di controllo. (Questa almeno era l’interpretazione dei due studiosi, perché le interessate si dichiaravano sinceramente convinte di poter proteggere le loro case pregando). In confronto alle donne della stessa comunità che non recitavano salmi, i soggetti del primo gruppo avevano avuto meno difficoltà a prendere sonno e a concentrarsi, meno scatti di rabbia, e in generale si sentivano meno ansiose, nervose o depresse. Quella pratica aveva dunque un’effettiva utilità, poiché evitava che la comprensibile agitazione dovuta alla situazione di pericolo si traducesse in atti inconsulti a loro volta pericolosi. Come ben sanno quanti si sono trovati ad affrontare rischi altrettanto imprevedibili e incontrollabili, l’incapacità di dominare l’ansia genera spesso ulteriori problemi.
Questa particolare funzione, già al suo culmine nelle prime società religiose, si sarebbe attenuata a mano a mano che le società rafforzavano il controllo sulle vicende umane mediante il progressivo consolidamento dei poteri statali, con conseguente riduzione degli episodi violenti e generalmente pericolosi, la prevenzione delle carestie attraverso la distribuzione di scorte alimentari, e (negli ultimi duecento anni) lo sviluppo della scienza e della tecnologia. Ma non si può certo dire che le società tradizionali fossero indifese o sprovvedute: al contrario, esse dimostravano una straordinaria capacità di mettere a frutto l’esperienza per proteggersi meglio da ogni possibile imprevisto. I guineani e gli altri popoli tradizionali dediti all’agricoltura conoscono per esempio decine di varietà di patate dolci e altri ortaggi, sanno dove e come coltivarli nel migliore dei modi e padroneggiano alla perfezione le tecniche di sarchiatura, fertilizzazione, pacciamatura, drenaggio e irrigazione. A loro volta i cacciatori di molte società tradizionali, compresi i !kung, studiano e interpretano le tracce delle loro prede per determinarne il numero e la distanza, la velocità e la direzione del movimento, e osservano il comportamento di altri animali per trarne indicazioni utili sulla loro presenza. Benché privi di bussole, pescatori e marinai sono comunque in grado di orientarsi in base alla posizione del sole e delle stelle, al flusso dei venti e delle correnti marine, all’osservazione delle nubi e degli uccelli, alla bioluminescenza dei mari e ad altri indicatori di posizione. Tutti i popoli predispongono inoltre difese e vigilano senza sosta contro eventuali attacchi ostili, formano alleanze e tendono agguati per cogliere il nemico di sorpresa.
Ma, piú ancora di quanto non accada a noi, l’efficacia delle azioni intraprese dai popoli tradizionali ha limiti importanti e lascia ampie aree di indeterminatezza: i rendimenti agricoli possono calare per effetto di siccità improvvise, piogge troppo intense, grandinate, tempeste di vento, repentini abbassamenti di temperatura o attacchi di parassiti, gli spostamenti degli animali hanno una forte componente di casualità e la maggior parte delle malattie si sottrae ai poteri della medicina tradizionale. Come le donne israeliane che recitavano salmi pur essendo del tutto incapaci di governare la traiettoria dei razzi, anche i popoli tradizionali, pur restando loro malgrado impotenti di fronte a molti pericoli, come noi si ribellano all’idea di rinunciare ad agire: l’inazione genera ansia e senso di impotenza, espone al rischio di commettere errori e ci impedisce di dare il meglio di noi. Per questo i popoli tradizionali si affidano a preghiere, rituali, profezie, magie, tabú, superstizioni e sciamani, e ogni tanto lo facciamo anche noi: convinti dell’efficacia di questi rimedi, troviamo sollievo all’ansia e riusciamo ad agire con piú calma e concentrazione.
L’etnografo Bronisław Malinowski ha studiato una popolazione delle Isole Trobriand, al largo della Nuova Guinea, i cui abitanti vanno a pesca tanto nella laguna interna dell’arcipelago, dove è sufficiente gettare una sostanza tossica e poi recuperare i pesci morti o storditi, quanto in mare aperto, dove le prede vanno trafitte con una lancia o prese nella rete mentre si continua a pagaiare. La pesca in laguna è facile, sicura e prevedibile in termini di resa; la pesca in mare aperto è pericolosa e imponderabile: se si ha la fortuna di incrociare un banco di pesci i risultati possono essere estremamente positivi, ma in caso contrario gli scarsi benefici si aggiungono a un alto indice di pericolosità. Prima di montare in piroga per una battuta in mare aperto gli isolani celebrano complessi riti magici destinati a garantire l’incolumità degli uomini e una pesca abbondante, perché neppure l’esperienza e l’impegno riescono ad annullare il margine di incertezza. Viceversa, alla pesca in laguna non è associato alcun tipo di rito magico: semplicemente si parte e si va, senza ansie né timori.
Un altro esempio è fornito dai cacciatori !kung, la cui competenza sembrerebbe lasciare ben poco spazio all’improvvisazione. Sin dalla prima infanzia i piccoli !kung giocano tutto il giorno con archi e frecce in miniatura, e non appena raggiungono l’adolescenza escono a caccia con i loro padri. La sera, davanti ai falò, gli uomini narrano le proprie avventure, ascoltano le relazioni di altri cacciatori sugli avvistamenti dei giorni precedenti, e solo a questo punto pianificano la giornata successiva. Durante le battute prestano costante attenzione ai movimenti e ai versi di altri animali il cui comportamento potrebbe rivelare la vicinanza di una preda, e studiano attentamente segni e impronte per identificare gli animali e dedurne la posizione. Verrebbe da pensare che i !kung non abbiano alcun bisogno di affidarsi alla magia, ma al mattino presto, prima di mettersi in cammino, nessun cacciatore può ancora sapere con precisione dove si trovino le prede.
Per controllare l’ansia generata da questa incertezza, alcuni consultano speciali dischi divinatori che dovrebbero indicare loro la direzione migliore da prendere e il tipo di animale che incontreranno. Si tratta di cinque o sei anelli di pelle di antilope, di diametro compreso tra i cinque e i sette centimetri, ciascuno dei quali ha un nome e un aspetto riconoscibile. Ogni cacciatore ne possiede una serie completa. All’occorrenza si sovrappongono i dischetti sul palmo della mano sinistra, ponendo il piú grande in cima, dopodiché li si agita soffiandoci sopra, si pone una domanda con voce potente e ieratica e si gettano i dischetti su un indumento steso per terra. Il compito di interpretare il responso dei dischi in base alla loro eventuale sovrapposizione e alla faccia visibile di ciascuno spetterà quindi a un indovino. A quanto pare l’interpretazione ha ben poche regole fisse, eccetto che la posizione capovolta dei dischi da 1 a 4 indica l’imminente uccisione di una preda.
Ovviamente i dischi divinatori non dicono nulla che i !kung già non sappiano. La loro conoscenza del comportamento animale è talmente profonda che le battute di caccia hanno sempre buone probabilità di successo, quale che sia la disposizione dei dischi divinatori, e quest’ultima, interpretata in maniera creativa come una sorta di test di Rorschach, sembra servire soprattutto per «dare la carica» agli uomini in previsione della giornata intensa. Il rituale li aiuta piú che altro a raggiungere un accordo sulla direzione da prendere: incamminarsi in una direzione quale che sia e seguirla senza esitazioni è certamente piú utile che perdere tempo a discutere.
Oggi tra noi contemporanei la preghiera, i riti e la magia sono meno diffusi, soprattutto perché la scienza e la conoscenza hanno un peso maggiore nel determinare il successo dei nostri sforzi. Molto però sfugge ancora al nostro controllo, e tante sono le imprese in cui scienza e tecnologia non possono garantirci il successo né proteggerci dai rischi: è in questi casi che anche noi ci affidiamo a preghiere, offerte e riti. Non è trascorso molto tempo da quando pregavamo per la felice conclusione dei viaggi in mare, per la vittoria nelle guerre e soprattutto per la guarigione dalle malattie, e quando un medico non riesce a prevedere con ragionevole certezza l’esito di una patologia o addirittura si dichiara impotente, è quasi matematico che ci affideremo alla preghiera.
Ma siamo davvero sicuri che il ricorso a queste forme rituali sia associato all’incertezza degli esiti? Prendiamo due esempi. È noto che prima di lanciare i dadi sul tappeto molti giocatori d’azzardo compiono una sorta di cerimoniale propiziatorio, cosa sconosciuta fra i giocatori di scacchi: ciò dipende dal fatto che i dadi sono notoriamente un gioco di fortuna, laddove invece la casualità non ha alcun ruolo negli scacchi. Se una certa mossa gli costa la partita, il giocatore di scacchi non ha scuse: ha perso perché non ha saputo prevedere la mossa dell’avversario. Allo stesso modo, prima di scavare un pozzo, i contadini del Nuovo Messico sono soliti consultare un rabdomante, poiché la complessità geologica di quell’area impedisce di fare ipotesi attendibili su profondità e consistenza delle falde acquifere: neanche i geologi professionisti riescono sempre a intuirne l’ubicazione in base alle caratteristiche superficiali del terreno. Ma nelle ventisei contee in cui è suddivisa la parte settentrionale del Texas (il cosiddetto Panhandle) l’acqua si trova quasi sempre 38 metri sottoterra, perciò gli agricoltori non fanno altro che scavare fino a quella profondità e a nessuno passa per la testa di ricorrere a un rabdomante. I giocatori di dadi e gli agricoltori del Nuovo Messico affrontano dunque l’incertezza con l’aiuto di rituali propiziatori, esattamente come i pescatori oceanici delle Trobriand e i cacciatori !kung; viceversa, gli agricoltori del Texas settentrionale, i giocatori di scacchi e i pescatori di laguna delle Trobriand non ne sentono il bisogno.
In sintesi, possiamo affermare che i rituali (religiosi e non) fanno tuttora parte della nostra vita e ci aiutano a sopportare l’ansia alimentata dall’incertezza e dal pericolo. Ciononostante, nelle società tradizionali questa funzione della religione era assai piú rilevante che nelle moderne società occidentalizzate.


Offrire conforto.
Una funzione della religione che potrebbe avere assunto crescente importanza negli ultimi 10000 anni è quella di offrire consolazione, speranza e senso dinanzi alle avversità della vita: un caso tipico è quando la morte si avvicina per noi o per una persona cara. Benché alcuni mammiferi – gli elefanti ne sono l’esempio piú straordinario – sembrino comprendere e provare dolore per la morte di un loro compagno, non abbiamo ragioni per credere che altri animali all’infuori di noi si rendano conto di essere destinati a morire. Quanto ai nostri antenati, l’inevitabile intuizione della limitatezza della vita dev’essere andata di pari passo con l’acquisizione di una maggiore coscienza di sé e di migliori capacità di raziocinio, associate all’osservazione della morte di altri membri della banda. La comprensione del significato della morte da parte della quasi totalità dei gruppi umani studiati e archeologicamente attestati si concretizzava nelle cure rivolte ai cadaveri, che a seconda dei casi venivano seppelliti, cremati, fasciati, mummificati, cotti, e cosí via.
L’improvvisa trasformazione di un corpo vivo e caldo in grado di muoversi, parlare e difendersi in un cadavere freddo, immobile e muto è certamente un’esperienza spaventosa, come lo è immaginare che la stessa cosa accadrà anche a noi. La maggior parte delle religioni offre conforto negando di fatto la realtà della morte e postulando una qualche sorta di vita ultraterrena per un’anima che si ipotizza legata al corpo. L’anima di una persona e la replica del suo corpo possono essere destinate a un luogo sovrannaturale che alcuni chiamano cielo; oppure l’anima resta sulla Terra trasformandosi in uccello, o migrando nel corpo di un’altra persona. Spesso le religioni che proclamano l’esistenza di una vita ultraterrena non si limitano a negare la morte, ma invitano i fedeli a sperare in un destino migliore nell’aldilà: vita eterna, ricongiungimento con i propri cari, libertà dagli affanni, nettare e bellissime vergini.
Oltre alla sofferenza legata alla prospettiva della morte, la religione fornisce conforto per altre situazioni difficili della vita: per esempio «spiegando» certe tribolazioni, negando che siano prive di senso e attribuendo loro un significato piú profondo. La sofferenza può dunque servire a dimostrare che un credente è degno di ricevere la vita eterna, a punirlo per i suoi peccati oppure a spingerlo con l’aiuto di uno stregone a identificare e uccidere una persona malvagia che gli ha arrecato danno. Vi sono poi religioni che promettono un risarcimento ultraterreno per i travagli terreni: il fedele che soffre non deve temere, perché sarà ricompensato dopo la morte. Una terza possibilità consiste infine nel promettere, oltre al risarcimento personale per le sofferenze patite, anche una vita ultraterrena assai travagliata per coloro che ci hanno inflitto tanto dolore: punire i nostri nemici da vivi offre una gratificazione limitata nel tempo, ben poca cosa in confronto al pensiero delle raffinate torture che dovranno patire per l’eternità in un inferno di matrice dantesca. Ecco cosí emergere la duplice funzione dell’inferno: offrire conforto infliggendo la meritata punizione ai nemici che non siamo riusciti a castigare personalmente, e incentivare l’obbedienza ai precetti religiosi con la minaccia di finire noi stessi nel fuoco eterno se sgarriamo. L’idea di una vita ultraterrena risolve il paradosso della teodicea, ovvero la coesistenza di bontà e crudeltà in un unico Dio: non c’è motivo di preoccuparsi, perché i conti verranno saldati al momento opportuno.
La funzione consolatoria della religione dev’essere emersa nelle fasi iniziali della storia evolutiva umana, non appena i nostri antenati sono diventati abbastanza intelligenti da capire di essere destinati alla morte e da chiedersi perché a volte la vita fosse tanto dolorosa. Molti popoli di caccia e raccolta credono nella sopravvivenza dello spirito nell’aldilà, ma la funzione consolatoria si è potenziata soprattutto dopo l’avvento delle cosiddette religioni trascendenti, che oltre a proclamare l’esistenza di una vita dopo la morte sostengono che quest’ultima sia ben piú importante e duratura della vita terrena, il cui fine prioritario consiste nell’ottenere la salvezza e prepararsi all’aldilà. Il rifiuto del mondo è particolarmente forte nel cristianesimo, nell’islam e in certe forme di buddismo, ma lo si ritrova anche in alcune filosofie secolari (cioè non religiose) come il platonismo. La fede in questo dogma può diventare cosí assoluta, da tradursi in totale rinuncia alla vita mondana: è il caso dei monaci e delle suore appartenenti agli ordini conventuali, che vivono, dormono e mangiano separati dal mondo secolare benché abbiano facoltà di frequentarlo ogni giorno per celebrare gli uffici divini, insegnare e predicare. Altri ordini miravano a un isolamento ancora piú rigido, del quale ci offrono eloquente testimonianza i monasteri cistercensi dell’Inghilterra: le rovine delle antiche abbazie di Rievaulx, Fountains Abbey e Jervaulx sono a tutt’oggi ben conservate proprio perché, lontane dai centri abitati, hanno subíto meno saccheggi e non sono mai state riutilizzate dopo l’abbandono. Ancora piú estremo fu il rifiuto del mondo praticato dai monaci irlandesi che andarono come eremiti nella disabitata Islanda.
Rispetto alle piú complesse società moderne, le società di piccola scala attribuiscono assai meno importanza al rifiuto del mondo, alla salvezza e alla vita ultraterrena, e questo per almeno tre ragioni. In primo luogo, il passaggio dalle società egualitarie di piccola scala agli organismi sociali piú complessi, con il loro corredo di re, nobili, élite, membri delle classi benestanti e cerchie altolocate, ha determinato un progressivo incremento della stratificazione sociale e della diseguaglianza. Se tutti coloro che ti circondano soffrono quanto te, difficilmente sentirai il bisogno di meditare sulle ingiustizie della vita e, al tempo stesso, non avrai sotto gli occhi esempi palesi di opulenza e fortuna. Viceversa, quando diventa evidente che certe persone vivono assai meglio di altre ed esercitano una supremazia sui loro simili, la religione si assume allora l’incarico di spiegare e confortare.
Le testimonianze archeologiche e le indagini etnografiche ci dimostrano come la vita sia effettivamente diventata piú difficile a mano a mano che le società di cacciatori-raccoglitori si trasformavano in società agricole e formavano raggruppamenti piú estesi. L’avvento dell’agricoltura determinò infatti un incremento delle ore di lavoro quotidiane, un peggioramento nella qualità dell’alimentazione, un aggravamento delle malattie infettive e del logorio fisico, e una riduzione della durata media della vita. Infine, come vedremo piú avanti, la terza e ultima ragione è legata al fatto che le società popolose e complesse hanno codici morali piú formalizzati, un atteggiamento piú manicheo nei confronti del bene e del male e di conseguenza problemi ancora maggiori rispetto alla teodicea: per quale motivo, se una persona agisce virtuosamente e rispetta le leggi, i malfattori e il mondo intero possono essere impunemente crudeli nei suoi confronti?
Questi ultimi tre punti ci aiutano dunque a comprendere perché la funzione di conforto della religione sia diventata cosí importante nelle società piú recenti e popolose: semplicemente, queste società ci infliggono piú sofferenze per le quali desideriamo essere confortati. Questa stessa funzione potrebbe inoltre spiegare il motivo per cui le sventure sembrano spesso ravvivare la fede nelle persone colpite, ed è alla base della maggiore religiosità osservata negli strati sociali, nelle regioni e nelle nazioni meno abbienti: in sostanza, i poveri hanno piú bisogno di essere rincuorati. Oggi la percentuale di individui che definisce la religione una componente importante della vita quotidiana oscilla tra l’88 e il 90 per cento in quasi tutte le nazioni con un prodotto interno lordo (Pil) al di sotto dei 10000 dollari, ma solo tra il 17 e il 43 per cento nella maggior parte di quelle con un Pil superiore ai 30000. (Il che non spiega tuttavia la forte religiosità degli americani, a cui accenneremo tra poco). Anche negli Stati Uniti le chiese e i loro frequentatori assidui sembrano essere di piú nelle regioni povere, nonostante le risorse economiche per costruirle e il tempo libero per andarci siano teoricamente superiori nelle aree ad alto reddito: di fatto, i gruppi sociali piú emarginati e deprivati dell’America sono quelli che manifestano l’impegno religioso piú appassionato e che aderiscono alle forme piú radicali di cristianesimo.
A fronte di due recenti sviluppi già citati, ovvero l’appropriazione della funzione esplicativa da parte della scienza e l’aiuto offerto da tecnologia ed efficienza sociale nel limitare pericoli un tempo considerati incontrollabili, il fatto che nel mondo moderno la religione continui a sopravvivere e addirittura a espandersi può lasciare sorpresi, ma il merito di ciò potrebbe andare al nostro costante bisogno di dare «significato» alle cose. Da sempre gli esseri umani cercano infatti di dare senso alla propria vita, che altrimenti rischierebbe di apparire una contingenza insignificante, vana ed effimera all’interno di un mondo imprevedibile e ostile. La scienza, dal canto suo, parrebbe sostenere che in questo contesto «significato» è una parola priva di senso, perché le nostre vite sono davvero insensate e insignificanti, nonché vane ed effimere, se non per il fatto di essere dotate di un corredo di geni il cui fine ultimo consiste nell’autopropagarsi. A loro volta, molti atei sono pronti a giurare che il problema della teodicea non esiste e che bene e male sono pure e semplici invenzioni umane: se il cancro o un incidente automobilistico uccide X e Y ma non A e B, si tratta semplicemente di casualità; dopo la morte non c’è vita, e i soprusi patiti sulla terra non saranno affatto compensati nell’aldilà. Se qualcuno, rifiutando l’idea che la vita sia priva di senso, li invitasse a mostrare in che modo la scienza può invece darle significato, gli atei risponderebbero che è una richiesta insensata e che sarebbe meglio lasciar perdere, perché tanto il significato non c’è: come disse Donald Rumsfeld a proposito dei saccheggi durante la guerra in Iraq, la vita è semplicemente «una cosa che succede». Ma niente da fare, i nostri vecchi cervelli bramano ardentemente un significato, e una storia evolutiva lunga milioni di anni ci induce a rispondere sempre nello stesso modo: «Sarà anche cosí, ma non mi piace e perciò mi rifiuto di crederci: se la scienza è incapace di dare un senso alla vita, mi affiderò alla religione». Forse è in questo modo che si spiega la persistenza e addirittura l’aumento della religiosità in un secolo di grandi progressi scientifici e tecnologici, e forse questo stesso bisogno di significato rende in parte conto del perché gli Stati Uniti, il paese con l’establishment scientifico e tecnologico piú sviluppato del pianeta, siano anche la piú religiosa tra le ricche nazioni del Primo Mondo. L’altra parte della spiegazione potrebbe risiedere nella maggior ampiezza del divario tra ricchi e poveri rispetto alla realtà europea.
Organizzazione e obbedienza.
Le ultime quattro caratteristiche e funzioni della religione che ancora restano da considerare – standardizzazione organizzativa, educazione all’obbedienza politica, regolazione del comportamento verso gli estranei mediante codici morali formalizzati, giustificazione dei conflitti – erano certamente assenti nelle società di piccola scala e sono emerse soltanto con la diffusione dellechefferies e degli stati, per poi declinare nuovamente nei moderni stati secolari. La standardizzazione organizzativa è una qualità che ormai tendiamo a dare per scontata nelle religioni moderne, che nella maggior parte dei casi hanno sacerdoti (rabbini, pastori, imam e cosí via) a tempo pieno, salariati o comunque forniti di quanto serve per vivere, nonché chiese (templi, sinagoghe, moschee, ecc.). All’interno di ciascuna dottrina, le chiese si riconoscono in un libro sacro comune (Bibbia, Torah, Corano e cosí via) e adottano rituali, stili artistici, musicali, architettonici e di abbigliamento ugualmente unificati. Un cattolico praticante cresciuto a Los Angeles può per esempio trovarsi perfettamente a suo agio in una chiesa cattolica di New York. Viceversa, nelle religioni praticate nelle società di piccola scala alcuni di questi elementi (rituali, arte, musica, abbigliamento) non sono standardizzati, e altri (sacerdoti, chiese, libri sacri) sono completamente assenti. È vero che in alcune esiste la figura dello sciamano, pagato o ricompensato con doni in cambio dei suoi servigi: ma non si tratta mai di figure a tempo pieno, bensí di individui che per sostentarsi devono comunque dedicarsi alla caccia, alla raccolta o all’agricoltura esattamente come ogni altro membro abile della stessa banda o tribú.
Storicamente, questi connotati organizzativi si svilupparono in risposta a un nuovo problema che andò emergendo a mano a mano che le società, sempre piú ricche e popolose, si ritrovarono a dovere e a potere dotarsi di una maggiore centralizzazione. Le bande e le società tribali sono troppo piccole e improduttive per generare i surplus alimentari necessari al sostentamento di sacerdoti, leader, esattori dei tributi, vasai, sciamani e specialisti a tempo pieno di vario ordine e grado: qui ogni individuo adulto deve procurarsi il cibo andando a caccia, raccogliendo o coltivando. Soltanto le società piú grandi e produttive generano le eccedenze che servono a rifornire di cibo le gerarchie di capi o dirigenti, oltre agli artigiani specializzati che non si dedicano all’agricoltura e non vanno a caccia.
Il dirottamento delle risorse alimentari è la soluzione al dilemma che nasce da tre indiscutibili premesse: le società popolose hanno forti probabilità di sconfiggere le società piú piccole; le società popolose hanno bisogno di leader e burocrati a tempo pieno, perché se venti persone possono sedersi attorno al fuoco e trovare un accordo, venti milioni non possono certo farlo; i capi e i burocrati di professione devono essere nutriti. Ma in che modo un capo o un re può indurre i contadini a tollerare quello che sostanzialmente è un furto di cibo perpetrato da una classe di parassiti sociali? Il problema è ben noto ai cittadini delle moderne democrazie, che a ogni tornata di elezioni si pongono sempre la stessa domanda: che cosa hanno fatto gli attuali detentori del potere per giustificare i grassi salari che prelevano dalle casse pubbliche?
La soluzione individuata da tutte le chefferies e le prime comunità statali conosciute, dall’antico Egitto alla Mesopotamia, dalle Hawaii all’Impero inca, è consistita nel creare una religione organizzata fondata sui seguenti principî: il capo o re è imparentato con gli dèi, oppure è egli stesso un dio; egli può intercedere presso gli dèi in favore dei contadini, ad esempio per far piovere o per ottenere un raccolto abbondante. Inoltre il capo o re offre un valido servizio alla comunità, coordinando i contadini in vista della costruzione di strade, sistemi di irrigazione e magazzini utili per tutti. In cambio i contadini devono procurare cibo al re, ai suoi sacerdoti e agli esattori delle tasse. L’insegnamento di questi precetti religiosi avviene per mezzo di rituali standardizzati, celebrati in templi altrettanto standardizzati, in modo da garantire l’obbedienza al re e ai suoi tirapiedi. Con il cibo prodotto dai contadini si nutrono anche gli eserciti, al comando dei quali il capo o il re muove alla conquista di nuovi territori e superfici coltivabili. Gli eserciti assicurano altri due vantaggi supplementari: dirottano verso le guerre contro i popoli vicini le energie dei nobili piú giovani e ambiziosi, che in caso contrario potrebbero complottare a danno del re, e possono essere impiegati per sedare eventuali rivolte dei contadini. Lungo il processo evolutivo che dai primi stati teocratici portò alla nascita degli imperi dell’antica Babilonia e di Roma, capaci di accumulare quantitativi ingenti di cibarie e forza lavoro, l’architettura delle religioni di stato si fece sempre piú ricca ed elaborata. Per questo Karl Marx considerava la religione oppio dei popoli (tab. 5) e strumento di oppressione di classe.
Negli ultimi secoli all’interno del mondo giudaico-cristiano abbiamo però assistito a una graduale inversione di tendenza, tanto che la religione ha ormai quasi completamente perso il ruolo di ancella dello stato. Per piegare al loro volere noi «contadini», i nostri politici e le classi dominanti si affidano oggi a mezzi ben diversi dalle asserzioni di divinità. Ciò non toglie che stato e religione siano ancora strettamente associati in alcuni paesi musulmani, in Israele e, fino a poco tempo fa, anche in Giappone e in Italia, o che il governo degli Stati Uniti invochi Dio sulle proprie monete, il Parlamento e le forze armate statunitensi abbiano i loro cappellani e tutti i presidenti americani (democratici e repubblicani) concludano i loro discorsi ufficiali con la formula «God bless America».


Codici di comportamento verso gli estranei.
Un’altra prerogativa della religione divenuta rilevante nelle società di tipo statale ma assente in quelle di piccola scala è l’ambizione di dettare i principî del comportamento morale fra estranei. Tutte le principali religioni del mondo indicano che cosa è giusto e che cosa è sbagliato e come ci si deve comportare, ma nelle società guineane di cui ho esperienza diretta questo nesso tra religione e moralità è molto piú debole o del tutto assente, specie per quanto riguarda il comportamento fra estranei. In quelle società, infatti, gli obblighi sociali sono fortemente condizionati dalle relazioni interpersonali: poiché una banda o una tribú è composta da poche dozzine o poche centinaia di individui, tutti i membri si conoscono fra loro e conoscono i rispettivi legami interpersonali, e ogni membro del gruppo osserva vincoli diversi nei confronti dei propri consanguinei, dei parenti acquisiti, dei membri del clan e degli abitanti del villaggio appartenenti ad altri clan.
Questa rete di relazioni stabilisce per esempio se ci si può rivolgere a qualcuno chiamandolo per nome, con quali persone si può contrarre matrimonio e a chi si può chiedere di condividere il cibo o la casa. Se scoppia una rissa tra due membri di una tribú, tutti cercheranno di separarli perché li conosceranno e saranno imparentati con loro; di contro però non si avrà mai l’occasione di interagire pacificamente con persone sconosciute, perché in queste società gli unici estranei sono i membri delle tribú nemiche. Se ci si imbatte in uno sconosciuto nel bel mezzo della foresta, infatti, le uniche azioni possibili sono ucciderlo o darsi alla fuga: salutarlo e cominciare a chiacchierare del piú e del meno come siamo abituati a fare noi sarebbe una tattica suicida.
Circa 7500 anni fa, quando alcune società tribali si trasformarono in chefferies composte da migliaia di individui, emerse dunque un nuovo problema. Poiché le vecchie regole di comportamento tribale non bastavano piú, le nuove unità sociali in via di formazione avevano gravissimi problemi di potenziale instabilità: se due membri della stessachefferie si fossero incontrati e, non conoscendosi, si fossero aggrediti come imposto dalle regole tribali, ne sarebbe infatti nata una contesa destinata inevitabilmente a coinvolgere i rispettivi parenti e sodali. Se poi uno dei contendenti fosse morto durante lo scontro, i suoi si sarebbero rifatti su un parente dell’assassino, innescando una spirale di vendetta inarrestabile che avrebbe portato il gruppo all’autodistruzione.
Questo dilemma ha un’unica soluzione, tuttora adottata dalle nostre società e documentata in tutte le chefferies e i primi stati: estendere le regole di comportamento pacifico alle relazioni fra la totalità dei membri di una società, conosciuti o sconosciuti. Il compito di farle osservare spetta poi ai dirigenti politici (capi o re) e ai loro emissari, investiti di questo potere da una nuova funzione della religione. In sostanza si presuppone che le regole di comportamento pacifico, codificate in un insieme di principî morali, siano emanate dalle divinità stesse o da agenti sovrannaturali. Il loro rispetto viene imposto sin dalla prima infanzia e la trasgressione gravemente punita, perché l’aggressione nei confronti di un’altra persona diventa a questo punto un’offesa agli dèi. Esempi perfetti in questo senso sono i dieci Comandamenti, ben noti a tutti gli ebrei e i cristiani.
Nelle moderne società secolarizzate le regole di comportamento pacifico hanno però ormai trasceso le proprie origini religiose: se oggi nemmeno gli atei uccidono i propri nemici è perché, come i credenti, anch’essi si riconoscono nel complesso dei valori inculcati dalla società e temono la punizione inflitta non da un dio, ma dall’inflessibile mano della legge. Ciononostante, è innegabile che dalla nascita delle prime chefferies fino alla recente affermazione degli stati secolari sia sempre stata la religione ad assumersi il compito di legittimare i codici di comportamento, permettendo agli uomini di vivere armoniosamente in società di larga scala dove gli incontri fra sconosciuti erano assai frequenti. Il suo controverso ruolo nel mantenimento dell’ordine sociale si esplica dunque attraverso due funzioni strettamente interconnesse: consentire agli estranei di vivere pacificamente fianco a fianco, e insegnare alle masse l’obbedienza ai leader politici. Come osservava cinicamente Voltaire: «Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo». A seconda dei punti di vista, queste due funzioni sono giudicate positivamente (in quanto promotrici di armonia sociale) o negativamente (in quanto strumentali all’oppressione delle masse da parte delle élite).
Giustificare la guerra.
Le guerre ponevano alle chefferies e agli stati emergenti un ulteriore problema, sconosciuto alle bande e alle tribú delle epoche storiche piú lontane. Poiché i codici di condotta delle società tribali si fondavano non sulla religione ma sui legami matrimoniali o di consanguineità, l’uccisione dei membri di tribú estranee alla propria non poneva alcun dilemma morale. Ma se uno stato ricorre alla religione per favorire relazioni pacifiche tra cittadini che non intrattengono legami di sangue né di matrimonio, come convincere le persone a ignorare quegli stessi precetti in caso di conflitto? Gli stati consentono infatti, anzi, addirittura impongono ai loro cittadini, di depredare e uccidere i cittadini di altri stati contro i quali sia stata dichiarata guerra. Come può tuttavia uno stato che insegna a «non uccidere» cambiare improvvisamente idea e dichiarare che «in certe circostanze si deve uccidere», senza gettare i suoi soldati in una terribile confusione che potrebbe indurli a sopprimere le persone sbagliate (i loro stessi concittadini, per esempio)?
In epoche recenti cosí come nell’antichità, anche in questo caso è la religione a giungere in soccorso con la propria autorevolezza: i dieci Comandamenti valgono solo nelle relazioni fra concittadini ed entro i confini della chefferie o dello stato. Poiché la maggior parte delle religioni rivendica il monopolio della verità e sostiene che tutte le altre fedi sono in errore, convincere la popolazione (come accadeva in passato, e troppo spesso anche oggi) che derubare e uccidere i fedeli di altre religioni sia non solo lecito ma addirittura obbligatorio non è certo difficile. Ed è questo il lato oscuro di tante nobili e patriottiche invocazioni: per Dio e per la nazione, por Dios y por EspañaDio con noiGott mit uns, e cosí via. Il fatto che siano eredi di una lunga, diffusa e ignobile tradizione non attenua minimamente le colpe dell’attuale genía di fanatici che uccide in nome della religione.
Il Vecchio Testamento è pieno di esortazioni a compiere crudeltà contro gli infedeli. IlDeuteronomio (20,10-18) spiega dettagliatamente in cosa consista l’obbligo al genocidio per gli israeliti: quando l’esercito assedia una città lontana, se la città accetta la pace bisogna ridurre in schiavitú tutti i suoi abitanti; se invece rifiuta di arrendersi bisogna uccidere tutti gli uomini, ridurre in schiavitú donne e bambini e rubare il bestiame e tutto ciò che si può portare via. Ma qualora la città appartenga agli ittiti, ai cananei o a uno qualsiasi degli altri abominevoli popoli che venerano i falsi dèi, allora il vero Dio ordina di non lasciare dietro di sé neppure una creatura che respiri. L’omonimo libro descrive in toni entusiastici lo zelo con cui Giosuè eseguí gli ordini divini, massacrando tutti gli abitanti di oltre quattrocento città. Nel Talmud, grande opera di esegesi biblica che esamina le potenziali ambiguità originate dalla contraddizione fra gli enunciati «non uccidere (chi crede nel tuo stesso Dio)» e «uccidi (chi crede in un altro dio)», si legge in alcuni autori che un israelita è colpevole di omicidio se uccide di proposito un altro israelita, ma innocente se la vittima non è un correligionario, ed è altrettanto innocente se uccide un israelita scagliando un sasso contro un gruppo di persone composto da nove israeliti e un infedele, perché è possibile che mirasse all’infedele.
A onor del vero, questo atteggiamento è tipico del Vecchio Testamento, mentre nel Nuovo Testamento i principî morali hanno fatto (almeno sul piano teorico) grandi progressi verso la definizione di un codice di comportamento universale. Tuttavia è innegabile che alcuni dei piú gravi genocidi commessi dai colonizzatori europei e cristiani a danno dei non europei abbiano trovato giustificazione morale tanto nel Nuovo quanto nel Vecchio Testamento.
È interessante notare che tra i popoli della Nuova Guinea la religione non viene mai chiamata in causa per giustificare lo scontro con un soggetto esterno al gruppo o la sua uccisione. Molti miei amici guineani hanno preso parte a tentativi di sterminio delle tribú confinanti, ma nei loro resoconti non ho mai udito il minimo accenno a qualsivoglia motivazione di natura religiosa o alla volontà di immolarsi per Dio o per la vera religione, né tanto meno a un ideale che giustificasse in qualche modo le loro uccisioni. Per contro, le ideologie teocratiche che hanno accompagnato la nascita degli stati vincolavano i cittadini a obbedire a un capo consacrato da Dio, a rispettare le norme morali (i dieci Comandamenti) unicamente nelle relazioni con i propri concittadini e a sacrificare la vita, se necessario, nelle guerre contro gli altri stati (ovvero gli «infedeli»). È tutto questo a rendere pericolose le società fondate sul fanatismo religioso: il sacrificio di un’esigua minoranza di membri (per esempio 19 persone, l’11 settembre 2001) consente all’intera società di eliminare un numero molto maggiore di ipotetici nemici (2996 persone, sempre l’11 settembre 2001). I codici di cattivo comportamento nei confronti degli esterni hanno raggiunto un picco negli ultimi 1500 anni, durante i quali i fanatici cristiani e musulmani si sono vicendevolmente sterminati, ridotti in schiavitú o convertiti a forza, riservando analogo trattamento anche ad altri «miscredenti». Benché l’uccisione di milioni di cittadini stranieri nelle grandi guerre del XXsecolo sia stata in seguito giustificata con argomentazioni di natura secolare, è indubbio che ancora oggi vi siano società in cui il fanatismo religioso è decisamente in auge.
Attestati di merito.
Fra le caratteristiche delle religioni che lasciano particolarmente sconcertati i laici vi sono senz’altro il forte legame con insiemi di credenze irrazionali e sovrannaturali alle quali ciascuna fede aderisce saldamente, negando al contempo quelli delle altre fedi; la frequente spinta a mettere in atto comportamenti onerosi, non di rado autolesionistici o persino suicidi, sufficienti a disincentivare l’adesione a qualsiasi fede da parte di un laico; e l’evidente ipocrisia insita nel proclamare codici morali che si vorrebbero universali, escludendo tuttavia un vasto numero di persone dalla loro portata e caldeggiandone anzi l’uccisione. Tra le varie ipotesi formulate per spiegare questi allarmanti paradossi, due mi sembrano particolarmente utili.
La prima mette in luce l’esigenza di dimostrare la propria dedizione a una religione attraverso una sorta di «distintivo». I credenti vivono in stretto contatto fra loro e fanno costante affidamento sul reciproco appoggio, ma il mondo è popolato da individui (molti, o la maggioranza) che aderiscono ad altre fedi, che potrebbero essere ostili nei confronti della loro o che sono scettici nei confronti di tutte le religioni. L’incolumità, la prosperità e la vita stessa di un credente dipendono allora dalla corretta identificazione dei suoi correligionari e dalla sua abilità nel persuaderli che ci si può fidare gli uni degli altri. Come si può dunque dimostrare in modo credibile l’appartenenza a una comunità religiosa?
Per essere convincenti le prove devono essere anche concrete e resistere ai tentativi di contraffazione dettati da slealtà o sporadico opportunismo. È per questo che gli «attestati» di religiosità comportano sempre sacrifici gravosi: il tempo necessario a imparare e a praticare regolarmente rituali, preghiere e canti, oppure a compiere pellegrinaggi; le risorse elargite sotto forma di offerte, donazioni e sacrifici di animali; la pubblica proclamazione di credenze irrazionali e inverosimili che altri giudicheranno sciocche e ridicole; e infine l’esecuzione pubblica e l’ostentazione di mutilazioni permanenti e dolorose, come l’incisione di parti delicate del corpo, la deformazione dei genitali e l’autoamputazione di falangi delle dita. A fronte di prove tanto onerose e permanenti, la testimonianza di fede risulterà ben piú convincente di una semplice dichiarazione stile: «Fidati di me, sono dei tuoi. Come vedi, indosso il cappello giusto (ma l’ho comprato ieri per quattro soldi e magari domani lo butto via)». Per ragioni essenzialmente analoghe, gli studiosi di biologia evolutiva sostengono che anche i vessilli mostrati da certi animali (la coda del pavone, per esempio) abbiano subíto trasformazioni progressive e onerose, che li hanno perciò resi credibili. Quando un pavone maschio fa la ruota, la femmina intuisce che un esemplare in grado di sopravvivere con una coda cosí ingombrante deve necessariamente avere un patrimonio genetico migliore ed essere meglio nutrito di un altro maschio che si dà arie di superiorità ma ha una coda piú piccola.
Un esempio interessante di come la religione favorisca la cooperazione e l’impegno reciproco viene dalle comuni che nel corso dei secoli hanno visto la luce negli Stati Uniti. L’intera storia americana, dalle origini fino all’epoca contemporanea, è scandita da una continua sperimentazione di forme di vita comunitaria basate sulla convivenza di individui che condividono gli stessi ideali. Benché in molti casi si tratti di valori religiosi, non mancano le comuni laiche, molte delle quali sorte fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. A prescindere dalle differenze, tutte le comuni subiscono pressioni di natura finanziaria, pratica, sociale e sessuale e devono combattere contro le lusinghe del mondo esterno. È naturale dunque che la stragrande maggioranza di esse finisca per disgregarsi, ora gradualmente, ora per deflagrazione improvvisa, prima della morte dei propri fondatori. Tanto per fare un esempio, ho un’amica che negli anni Sessanta ha partecipato alla fondazione di una comune in una zona molto bella, tranquilla e inaccessibile della California settentrionale. Poco alla volta gli altri membri fondatori si sono allontanati: alcuni per semplice noia, altri perché stanchi di vivere in un luogo cosí isolato o a seguito di contrasti con gli altri membri. Alla fine la mia amica è rimasta sola e oggi vive ancora laggiú, ma è tornata a essere un singolo individuo che non fa parte di nessuna comune.
Richard Sosis ha condotto uno studio su alcune centinaia di comunità religiose e laiche fondate negli Stati Uniti tra il XIX e i primi anni del XX secolo. Quasi tutte alla fine si erano sciolte, con la sola eccezione delle fortunatissime «colonie» del gruppo religioso degli hutteriti: le venti incluse nel campione erano ancora attive ai tempi del suo studio. Escludendo queste ultime, tuttavia, ben 199 fra quelle prese in esame risultavano già disgregate o estinte, e la loro scomparsa era stata puntualmente preceduta da una perdita di fede negli ideali del gruppo alla quale si erano talora sommati eventi di natura diversa: disastri naturali, morte di un leader carismatico o perduranti ostilità da parte di estranei. In tutti gli anni esaminati, comunque, le probabilità di dissoluzione erano state quattro volte maggiori per le comuni laiche rispetto a quelle religiose. Le ideologie religiose devono dunque essere piú abili nel persuadere gli individui a conservare un vincolo verosimilmente irragionevole, a non abbandonare il gruppo anche quando sarebbe piú logico farlo e ad affrontare le incessanti difficoltà connesse a un regime di proprietà comune e alle continue prevaricazioni da parte di membri interessati unicamente al proprio tornaconto. Anche in Israele, dove per molti decenni sono coesistiti kibbutz religiosi a fianco di un numero decisamente superiore di kibbutz secolari, i primi hanno dato prova di maggiore resistenza nonostante gli alti pedaggi imposti dalle pratiche religiose (per esempio, l’astensione da qualsiasi attività un giorno alla settimana).



Misurare il successo di una religione.
La seconda soluzione che ho trovato utile per dipanare i paradossi della religione è quella fornita dal biologo evoluzionista David Sloan Wilson. Secondo Wilson, lo scopo della religione consiste nel definire un particolare gruppo umano in competizione con gruppi umani di religione diversa, e la misura piú immediata del relativo successo di una religione è data dal numero dei suoi aderenti. Ma se è cosí, si domanda Wilson, perché oggi nel mondo ci sono piú di un miliardo di cattolici, circa 14 milioni di israeliti e nemmeno un manicheo albigese, benché questa setta di cristiani che credevano nell’eterna lotta tra le forze del bene e del male fosse piuttosto diffusa nel Medioevo?
Egli prosegue poi nel ragionamento sostenendo che il numero di aderenti di una religione è determinato dal saldo tra l’insieme dei processi che tendono a incrementarne il numero e l’insieme dei processi che tendono a diminuirlo. Del primo insieme fanno parte la procreazione di figli che vengono educati alla fede e la conversione di individui che in precedenza appartenevano ad altre religioni o non erano religiosi; viceversa, tra i processi che tendono a ridurre il numero dei fedeli vi sono i decessi e le conversioni ad altre fedi. Qualcuno dirà: «Be’, è ovvio. Ma come si fa a capire perché i cattolici che credono nella resurrezione di Cristo sono piú numerosi degli israeliti che non ci credono?» La forza dell’approccio di Wilson sta proprio nel fornire un quadro entro cui è possibile misurare gli effetti delle credenze e delle pratiche religiose sui processi che ne alterano il numero degli aderenti. Alcuni risultati sono effettivamente prevedibili, altri decisamente meno scontati. In ogni caso, Wilson ci dimostra che le religioni perseguono il successo attuando strategie diversissime.
Consideriamo come primo esempio la setta protestante degli Shaker, che nell’Ottocento ebbe grande diffusione in America nonostante l’obbligo del celibato le impedisse di avvantaggiarsi del piú comune strumento di espansione: la procreazione. Per molti decenni il movimento Shaker crebbe esclusivamente grazie a un’intensa opera di proselitismo. Del tutto opposto è invece il caso del giudaismo, sopravvissuto per svariate migliaia di anni senza mai fare proseliti. È comprensibile che il cristianesimo e l’islam, svolgendo un’intensa opera di catechizzazione, abbiano un numero di aderenti ben maggiore, ma la sopravvivenza del giudaismo si deve ad altri fattori: tassi di natalità piuttosto elevati, tassi di mortalità contenuti (eccetto che nei periodi di persecuzione), incoraggiamento allo studio generatore di opportunità economiche, forte aiuto reciproco, rari episodi di conversione ad altre fedi. Quanto ai manichei albigesi, la causa diretta della loro scomparsa non fu il dogma in sé dell’eterna lotta tra le forze del bene e del male, che difficilmente poteva incidere in modo negativo sui tassi di natalità o risultare tanto inverosimile da impedire ogni proselitismo. Semmai, il dogma manicheo fu messo al bando dal cattolicesimo tradizionale, che dopo aver dichiarato guerra santa contro gli albigesi ne assediò ed espugnò la roccaforte, condannando al rogo tutti i superstiti.
Il ragionamento di Wilson si fa piú sottile quando tenta di dare risposta a uno dei maggiori interrogativi della storia religiosa d’Occidente: per quale motivo, tra le innumerevoli e minuscole sette giudaiche in lotta fra loro e con altri gruppi religiosi nell’Impero romano del i secolo d.C., a prevalere fu quella che trecento anni piú tardi, divenuta cristianesimo, avrebbe assunto il ruolo di religione dominante? Tra i fattori che contribuirono di piú all’affermazione del cristianesimo in tarda epoca romana possiamo elencare l’intensa opera di proselitismo (che lo differenziava dal giudaismo ortodosso), l’adozione di pratiche che favorivano la natalità e la sopravvivenza dei neonati (diversamente da quanto avveniva nella società romana dell’epoca), l’apertura all’impegno religioso delle donne (tratto sconosciuto sia al giudaismo e al paganesimo d’epoca romana, sia alle fasi successive dello stesso cristianesimo), la diffusione di istituzioni sociali piú efficaci nel proteggere dalle epidemie, e infine la dottrina del perdono. Spesso intesa come una semplicistica esortazione a porgere l’altra guancia, quest’ultima andrebbe in realtà inserita nel contesto di un complesso sistema di risposte che potevano andare dal perdono alla vendetta. Alcuni test sperimentali condotti mediante giochi di ruolo hanno dimostrato che, in certe circostanze, perdonare chi ci ha fatto un torto offre notevoli vantaggi a lungo termine.
Un altro esempio di applicazione dello schema di Wilson riguarda il successo del mormonismo, la cui diffusione negli ultimi due secoli è rapidamente aumentata. Chi non professa questa religione tende a giudicare con un certo sospetto il già citato dogma (tab. 6) dell’apparizione dell’angelo Moroni, che il 21 settembre 1823 avrebbe rivelato a Joseph Smith l’ubicazione di alcune tavole dorate sepolte in cima a una collina nello stato di New York e in attesa di essere tradotte. Nonostante le dichiarazioni giurate degli undici testimoni (Oliver Cowdery, Christian Whitmer, Hiram Page e altri otto) che asseriscono di aver visto e toccato le tavole, ai non mormoni viene spontaneo domandarsi a che cosa si debba la crescita esplosiva di una fede basata su principî tanto inverosimili.
In base all’approccio di Wilson, il successo delle azioni di proselitismo effettuate da una religione non dipende dalla verosimiglianza dei suoi principî ma dalla forza con cui quei principî e le pratiche a essi associate motivano gli adepti a fare una o piú delle seguenti cose: concepire e allevare figli, fare proseliti, costituire una società ben organizzata. Per dirla con le sue parole: «Anche le credenze palesemente improbabili possono rivelarsi adattative, nella misura in cui stimolano comportamenti adattativi nel mondo reale [...] Non sempre la conoscenza della realtà fattuale è sufficiente a indurre un comportamento adattativo: in certi casi un sistema di credenze simboliche che si allontani da essa si rivela addirittura piú efficace».
Tornando al mormonismo, non c’è dubbio che i dogmi e le pratiche di questa religione siano stati quanto mai efficaci nel promuovere la crescita numerica dei fedeli, giacché, com’è noto, i mormoni tendono a essere alquanto prolifici. In una collettività fortemente solidale e interdipendente come la loro, inoltre, la vita sociale è piena e soddisfacente e non mancano gli incentivi al lavoro. Grande importanza viene poi attribuita all’opera di proselitismo: i giovani mormoni dedicano fino a due anni della loro vita alla ricerca di nuovi fedeli in patria o all’estero. I membri della comunità versano infine alla chiesa una decima annuale pari al 10 per cento dei loro guadagni, la quale va ad aggiungersi alle normali tasse federali, statali e locali. Poiché l’impegno in termini di tempo e risorse è certamente notevole, chi aderisce o si converte al mormonismo non può che prendere molto sul serio la propria fede. Quanto alla supposta inverosimiglianza delle dichiarazioni di Joseph Smith e dei suoi undici testimoni circa le verità divine contenute nelle tavole dorate, qual è in fin dei conti la differenza tra questi assunti e i resoconti biblici delle rivelazioni divine a Gesú e a Mosè, se si eccettua la disparità temporale e lo scetticismo derivante dall’essere stati educati a una religione diversa?
Ma che cosa ci dice Wilson a proposito della fondamentale ipocrisia di molte religioni, che proclamano principî morali nobilissimi e poi esortano a uccidere i fedeli di altre religioni? Ci dice che il successo di una religione (la sua «idoneità», per usare il linguaggio della biologia evolutiva) è un concetto relativo, definibile solo paragonandolo a quello di altre religioni. E, che ci piaccia o no, è possibile che una religione consolidi il proprio «successo» (misurato in base al numero di adepti) uccidendo o convertendo a forza i seguaci di altre fedi, come già accaduto in passato. «Quando affronto l’argomento della religione, – osserva Wilson, – i miei interlocutori finiscono spesso per elencarmi una litania di misfatti perpetrati in nome di Dio, ma nella maggior parte dei casi si tratta di orrori commessi da gruppi religiosi a danno di altri gruppi. Come posso, di fronte a simili prove, sostenere che la religione è “adattativa”? In realtà è tutt’altro che difficile: basta intendere l’idoneità in termini relativi. È importante sottolineare che si può spiegare un comportamento in termini evoluzionistici senza darne una giustificazione morale».
Come cambiano le funzioni della religione.
E cosí finalmente torniamo alla domanda iniziale sulle funzioni e la definizione di religione. Ora è chiaro perché spiegare che cosa sia è tanto difficile: perché, esattamente come gli organi elettrici dei pesci, nel corso dell’evoluzione la religione ha assunto funzioni diverse. Anzi, in confronto ai pesci ha fatto anche di piú: se gli organi produttori di elettricità hanno sviluppato sei diverse funzioni, nel corso della storia umana la religione ne ha sviluppate sette (fig. 2). Di queste, quattro risultavano del tutto assenti nell’una o nell’altra fase storica, e cinque erano ancora presenti, benché in declino, in una fase diversa. Le due funzioni all’apice intorno al 50000 a.C., quando comparvero i primi esseri umani dotati di intelligenza e voglia di conoscere, sono andate declinando nel corso dei millenni: l’una (interpretazioni sovrannaturali della realtà) piuttosto rapidamente, l’altra (creazione di rituali in grado di ridurre l’ansia causata da pericoli incontrollabili) con una certa gradualità. Delle cinque restanti funzioni, quattro erano del tutto assenti intorno al 50000 a.C., e una era debole; tre di esse hanno raggiunto il culmine con la comparsa delle chefferies e dei primi stati, e due all’epoca degli stati tardorinascimentali; da allora, tutte e cinque hanno piú o meno perso importanza.



Questo continuo alternarsi tra funzioni fa sí che definire la religione sia piú difficile che definire gli organi elettrici, perché questi hanno in comune almeno una proprietà, ovvero la capacità di generare campi elettrici rilevabili nell’ambiente circostante, mentre non vi è una sola caratteristica che sia comune a tutte le religioni. A rischio di produrre nient’altro che l’ennesimo tentativo da aggiungere a quelli già elencati nella tabella 5, vorrei ora proporre la mia definizione di religione come «insieme di tratti distintivi di un gruppo sociale umano rispetto ad altri gruppi che non condividono quegli stessi tratti in forma identica. Fra i tratti condivisi vi è sempre almeno una delle seguenti prerogative, talora presenti contemporaneamente: interpretazione sovrannaturale della realtà, utilizzo di rituali per arginare l’ansia causata da pericoli incontrollabili, opera di conforto dinanzi alle sofferenze della vita e alla prospettiva della morte. A parte quelle primitive, le religioni sono state cooptate al fine di promuovere la standardizzazione organizzativa, l’obbedienza politica, la tolleranza verso i correligionari stranieri e la giustificazione delle guerre contro i seguaci di altri religioni». Come vedete, almeno sul piano dell’astrusità la mia definizione ha poco da invidiare ad alcune di quelle presentate nella tabella 5; ciononostante, mi pare corrispondere alla realtà.
E del futuro della religione, che dire? Credo dipenda in gran parte dalla forma che assumerà il mondo nei prossimi trent’anni. Se si assisterà a un miglioramento degli standard di vita in tutto il pianeta, le funzioni della religione che nella figura 2corrispondono ai punti 1 e 4-7 continueranno a decrescere, mentre le funzioni 2 e 3 avranno maggiori probabilità di sopravvivenza. In particolare, è ipotizzabile che in futuro si ricorra alla religione soprattutto per dare un senso alla vita e alla morte, intese come fenomeni individuali che da una prospettiva scientifica potrebbero sembrare privi di significato, e anche se, a fronte delle risposte illusorie della religione, la scienza arrivasse un giorno a fornire risposte veritiere, probabilmente molti continueranno a non gradirle. Se invece gran parte della popolazione mondiale dovesse continuare a vivere in povertà o se (peggio ancora) un eventuale arretramento dell’economia e degli standard di vita si accompagnasse a una pace piú precaria, tutte le funzioni della religione, compresa l’interpretazione sovrannaturale del mondo, potrebbero tornare in auge. Comunque vadano le cose, sarà la generazione dei nostri figli a farne esperienza diretta.









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